Giustizia

Che fine ha fatto la cancellazione del segreto di Stato?

3 Dicembre 2014

Orientarsi nell’oceano vasto dei termini riguardanti la declassificazione di atti coperti dal segreto di Stato è come trovarsi davanti a un Nuovo Mondo: ogni novità la si nomina a seconda di ciò che più si conosce o si reputa più vicina alla cultura di appartenenza. Lo scorso aprile, a soli 58 giorni dal suo insediamento, dalle pagine di “Repubblica” il premier Matteo Renzi annunciò in grande stile: «Abbiamo deciso di desecretare gli atti delle principali vicende che hanno colpito il nostro Paese e trasferirli all’Archivio di Stato», l’ancoraggio era già visibile dalla partenza.

È stato proprio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri con delega ai servizi segreti, Marco Minniti, durante la terza seduta presso la commissione Moro del 29 ottobre scorso a rimodulare la questione: «Tengo a precisare: «declassificazione» e non «desecretazione», nel senso che, come è noto a questa Commissione, c’è una differenza significativa tra i due termini. La desecretazione presuppone che esista un segreto di Stato che viene tolto. Sulle stragi, sul terrorismo, sapete che per legge non è possibile apporre segreto di Stato. La declassificazione, invece, significa che il materiale risponde ai livelli di segretezza con i quali si trattano i documenti che rivestono un ambito di riservatezza. I livelli nel nostro Paese sono definiti dalla legge n. 124 e sono: «riservato», «riservatissimo», «segreto» e «segretissimo». Naturalmente il livello di segretezza è crescente, quindi si va dal più tenue («riservato») al più elevato («segretissimo»). Nel momento in cui si stabilisce la declassificazione, gli atti diventano pubblici. La differenza tra la classificazione e il segreto di Stato sta sostanzialmente in questo, se mi è consentito fare un richiamo di carattere generale: le carte, se sono coperte dal segreto di Stato, non possono essere trasferite né all’autorità giudiziaria né al Parlamento; se invece sono classificate, pur mantenendo un carattere classificato, le carte possono essere trasferite al Parlamento, che ha le strutture per poter trattare il materiale classificato, che naturalmente tale rimane, e sono nella disponibilità della magistratura. Questa è la differenza sostanziale, che non è di piccolissimo conto.» L’audizione intera, significativa, ripresa poco o nulla dagli organi di stampa traccia una sorta di vademecum per la navigazione di giornalisti e addetti ai lavori ma anche un promemoria prima di annunci futuri.

Come se non bastasse, bisogna procedere a vista facendo lo slalom tra i vari organi dello Stato sul tema, i quali, a seconda delle competenze, dai nostri servizi di sicurezza alle Commissioni d’inchiesta precedenti e attuali, passando per gli archivi del Viminale e dell’Arma dei Carabinieri (questi ultimi due non pervenuti in quanto a trasparenza),  hanno apposto od opposto il segreto o ritenuto opportuno classificare. La direttiva Renzi (definizione giornalistica e politica insieme) non fa che rimettere alle varie Amministrazioni che “detengono documentazione relativa agli eventi di cui si tratta” e che “vorranno quindi impartire le necessarie direttive nei sensi indicati.” Minniti dal canto suo lo definisce un mandato a procedere vero e proprio. Gli atti in questione sono quelli relativi alle stragi: Piazza Fontana a Milano (1969), Gioia  Tauro  (1970),  Peteano (1972), la Questura di Milano (1973), Piazza  della  Loggia  a Brescia  (1974), l’Italicus  (1974), Ustica  (1980),  la stazione di Bologna (1980), e il Rapido 904 (1984). Si tratta dell’ampio raggio degli anni che coprono la strategia della tensione la quale appunto, almeno nel senso storico, la si fissa fino agli anni ’80 del 900, sebbene altri eventi tragici che le sono succeduti portino lo stesso marchio destabilizzante.

Chiarita dallo stesso Minniti la falsa partenza del presidente del Consiglio si può poi tenere in considerazione l’importanza di quegli  atti da declassificare,  i cui eventi sono entrati a gamba tesa sulle stragi e che forse potranno permettere a storici, giornalisti o ai cittadini tutti di ricostruire quel periodo di fuoco. Eventi la cui reale portata, quasi in tutti i casi, è sfuggita  per sempre dal cerchio  stretto e spesso limitato dell’azione giudiziaria. Un esempio di chiaro gioco interpretativo è il caso Moro: nel 2008 alcuni atti furono declassificati, per lo più quelli provenienti dalle Commissioni d’inchiesta che lo trattarono (compresa la Commissione d’inchiesta sul terrorismo in Italia e la Commissione d’inchiesta P2) e da ormai due anni vari filoni sono stati aperti dalla procura di Roma, o da essa acquisiti, successivamente a rivelazioni giornalistiche o indagini di altre procure. Tra tutti, spicca quello che riguarda l’episodio del rapimento e della uccisione della scorta dello statista Dc Aldo Moro quel 9 marzo del 1978 all’angolo fra via Fani e via Stresa in Roma. Quell’episodio sembra essere il nodo centrale dell’intero caso perché a esso vengono attribuite presunte presenze “altre” dalle BR e specificatamente  uomini dei servizi nazionali o internazionali. Giuridicamente il termine strage a quell’episodio, cui han fatto poi seguito i 55 giorni di prigionia del presidente democristiano, non è mai stato applicato per cui almeno fino ad oggi resta logico mantenere il segreto sulle dinamiche che lo hanno caratterizzato proprio in virtù del fatto che solo a stragi tendenti all’eversione e specificate giuridicamente non è possibile mantenere alcun segreto.

Su questo scoglio si infrange lo scorrere lento di un fluire perfetto: stare a dimenarsi su carte da rilasciare quando poi la logica attuativa impone il silenzio. Solo di recente nella richiesta di archiviazione emessa dalla Procura Generale di Roma, e resa nota lo scorso 12 novembre durante sempre un’audizione della Commissione Moro, questo termine è entrato a far parte dell’arena giuridica e potrebbe forse dare un segnale d’accelerazione in tal senso (in generale sono tuttora 12.500 i documenti sotto chiave sul caso Moro). Il timore di molti esperti a poche ore da quell’annuncio di Renzi fu da subito quello che si potesse «annegare tra le carte inutili». Un esempio tra tutti ma fondamentale è appunto questa dichiarazione del procuratore di Trieste Carlo Mastelloni al quotidiano “La Stampa” il 23 aprile scorso. Mastelloni ha indagato e messo mano sul rosso e il nero degli anni di riferimento della direttiva per lungo tempo fino a vedersi opporre il segreto. In particolare sull’inchiesta Argo 16: il velivolo C47 dell’Aeronautica militare attribuito a operazioni Gladio e precipitato a Marghera il 23 novembre del 1973.  Questo evento, che provocò  quattro vittime tra i militari, è ancora derubricato come “incidente” stando alla definizione dell’avvocato di parte civile Sebastiano Sartoreto, il quale  commenta a Gli Stati Generali: «La storia giudiziaria dell’inchiesta sull’Argo 16 è composta da due verità: quella ufficiale e quella sostanziale per la quale ormai non potrà più celebrarsi alcun processo sebbene le stragi non cadano mai in prescrizione». Infatti, ad eccezione dell’ex generale Gianadelio Maletti (fuggito in Sudafrica nel 1980 nda) tutti sono ormai deceduti. «Sto ancora aspettando la risposta alla mia richiesta – continua Sartoreto –  quella rappresaglia di guerra è ancora derubricata come incidente e i famigliari delle vittime non hanno potuto vedere per questo alcun risarcimento. A prescindere dal colore che si succede al governo, le cose sembrano non cambiare».

Nel novembre del 2006, infatti, il legale aveva depositato un’ istanza per conto dei famigliari del comandante Anano Borreo presso l’allora Presidenza del Consiglio (Prodi in carica) in cui veniva richiesta la desecretazione degli atti riferiti all’inchiesta. In teoria dovrebbero passare 30 anni da quella data affinché si possa aprire  l’armadio dei servizi (quindi la prima data utile dovrebbe essere il 2018) ma si possono fare delle eccezioni come è capitato di recente per la vicenda Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Chiaro esempio di come spesso gli atti “liberati” non aiutino alla ricostruzione, perché quelli davvero importanti risiedono altrove oppure sono andati distrutti, è la declassificazione delle carte sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia. “Repubblica” stessa con un articolo a firma di Alberto Custodero del 18 novembre scorso lo stigmatizza: «Desecretati i documenti del ministero della Difesa: ma dentro ci sono solo vecchie carte sui rapporti internazionali del Pci. Nessun riferimento a neofascisti e servizi segreti deviati. E nei dossier le stragi degli anni Settanta vengono definite “Eventi”» ( da “Il giallo dei faldoni di Piazza della Loggia, la Repubblica).

I canali delle informazioni sulle cosiddette “navi a perdere”, di cui l’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e il suo operatore sono parte integrante, sono poi ancora tutti da percorrere. Lo scorso maggio sono state declassificate appunto le informative dei Servizi segreti riguardanti le indagini sul ciclo dei rifiuti e sulla morte della giornalista della Rai e del suo operatore. Quelle informative erano state acquisite dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta, lì rimaste classificate e oggi sono disponibili on line direttamente dal sito dell’Archivio storico della Camera dove selezionando gli atti di interesse si può fare direttamente richiesta e riceverli in digitale. In quel caso la declassificazione è stata utile perché ha rivelato che sin dai primi mesi il Sisde era a conoscenza del fatto che il primo indizio sull’uccisione dei due giornalisti quel 20 marzo del 1994 fosse proprio il traffico d’armi, a dispetto di quanto valutato dalla Commissione d’Inchiesta specifica che si è occupata del caso. Una scoperta che varrebbe l’apertura di una nuova inchiesta. Quelle riguardanti il ciclo dei rifiuti, anch’esse  disponibili, invece erano quasi interamente di competenza dell’Aisi e dell’Aise, le due agenzie d’intelligence coordinate dal Dipartimento di Sicurezza.

Un capitolo a parte merita la questione delle fonti documentarie e il loro trattamento elettronico. La mole di documentazione che ha scritto bene o male la storia dell’Italia contemporanea, con risvolti ancora influenti sulle attuali vicende giudiziarie, e libera dalle maglie strette dei segreti, è disponibile già dal maggio scorso attraverso un software, “Doctrace”, che offre la possibilità di effettuare ricerche direttamente on line senza passare per l’iter burocratico di archivi e pass. Un vero e proprio tesoro per i giornalisti che possono servirsene in barba anche a certe sentenze scritte. Hanno inaugurato il sito fontitaliarepubblicana.it gli atti della Commissione d’inchiesta sulla P2 e dal  4 dicembre saranno disponibili anche le sentenze dei processi sulla strage di Piazza Fontana. Mentre le sentenze sulla strage di Piazza della Loggia e la morte di Ilaria e Miran sono da poco già on line. Il progetto tutto è stato promosso dall’Archivio Flamigni, dalla Rete degli archivi per non dimenticare e sostenuto dalla Direzione generale per gli Archivi.  Qui almeno si naviga in chiare acque.

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