Autorità indipendenti

È in atto un modesto colpo di stato istituzionale (per il resto tutto bene)

21 Dicembre 2015

Padoa Schioppa, Luigi Spaventa e Lamberto Cardia sono gli ingombranti predecessori di quel Giuseppe Vegas paracaduto da Berlusconi sulla poltrona della Consob, mentre a precedere Ignazio Visco sullo scranno maximo di Bankitalia è stato nientemeno che Mario Draghi. Passare in rassegna questi nomi politicamente così significativi fa scattare, in parallelo, un giochino inevitabile. Immaginare, cioè, quanti di questi altissimi funzionari dello stato sarebbero rimasti in silenzio, in un assordante silenzio, nei giorni successivi al loro sostanziale commissariamento/azzeramento da parte del capo del governo. E quanti tra loro, poi, avrebbero presentato una sana e orgogliosa lettera di dimissioni. Naturalmente ognuno può anche pensare, e a buon diritto, che nessuno tra questi quattro signori avrebbe mai dormito il sonno bancario che invece avrebbero ronfato i vertici attuali, ma questo, se vogliamo, è tutto un altro sogno.

Quello che oggi appare sulla scena in modo persino clamoroso è il totale rovesciamento delle parti per cui il famoso assunto «quis custodiet custodes?» – chi controllerà i controllori – si è rimodellato in un banalissimo «il controllore sono Me», dove per me intendiamo lui, il presidente del Consiglio. È vero, è molto vero, che Matteo Renzi ha cambiato il passo di questo Paese e questo è il grande merito che nessuno potrà mai disconoscergli. Gli ha cambiato i ritmi, ha scrostato quei paludamenti mesozoici che rendevano inefficiente la macchina, ha impresso una velocità diversa agendo in profondità. Ha lavorato in sostanza sulla nostra vecchia mentalità, sui pregiudizi, ha attaccato il baluardo del “No, questo non si può fare». Un’impresa epocale che la storia, un giorno, ci dirà quanto riuscita. Succede però che in questa fase dell’uomo solo al comando, in questo passaggio storico di “indiscutibilità” del verbo renziano in cui sembrano saltare tutte le marcature, appaiono fragili, fragilissimi, quei pesi e contrappesi che costituirebbero lo scheletro di una democrazia, esattamente gli snodi che nei momenti difficili assicurano la stabilità e il buon funzionamento delle istituzioni.

In parole povere, Matteo Renzi, nel pieno di una tempesta perfetta, ha “usato” un crac dalle proporzioni davvero modeste – quattro piccole banche di provincia – per rimodellarsi a costruttore di pace e riguadagnare la scena attraverso un paio di mosse assolutamente estreme e fuori non solo dal galateo istituzionale, ma anche dalle proprietà di un presidente del Consiglio che deve agire per atti e chiarezza: la prima è decapitare surrettiziamente la struttura apicale di Consob e Bankitalia, colpevoli ai suoi occhi di non aver previsto, nè prevenuto, ciò che poi è regolarmente successo, la seconda è stata affidare al “migliore” di tutti noi, il giudice Cantone, il controllo su tutto, controllori, controllati e controllandi. Scriveva qualche giorno fa Goffredo De Marchis su Repubblica: «Il caso Banca Etruria ha agitato moltissimo il premier perché rischia di intaccare la narrazione, lo storytelling delle origini renziane… Renzi cercava un’altra mossa, più efficace, con un impatto sul consenso elettorale molto maggiore della solidità scontata della maggioranza intorno al ministro Boschi: “La giocata di oggi è Cantone. Loro pensano che io sulle banche abbia dei problemi, ma io vado all’attacco”». Ma le malizie non finiscono qui, voleva forse nascondere, il premier, anche le esitazioni del governo proprio sulle banche? Stefano Folli, nella sua nota su Repubblica, fa sue le perplessità di Bruno Tabacci che in Aula «ha richiamato la “superficialità di chi ha varato il decreto sulle popolari includendovi l’istituto di Arezzo che appena diciotto giorni dopo sarebbe stato commissariato: come è possibile che il dissesto fosse ignoto al Ministero dell’Economia? E come è possibile che la Consob non sia intervenuta pur notando la “stranezza” delle fluttuazioni in Borsa dei titoli? Sono quesiti ancora senza risposta».

È in atto un modesto, ancorchè luminoso, colpo di stato istituzionale. Il cui grimaldello è nello stravolgimento di un principio cardine della democrazia, quello della separazione tra poteri. Per azzerare i vertici di Consob e Bankitalia, infatti, il presidente del Consiglio ha evitato il confronto franco e diretto, come il ruolo gli avrebbe imposto, e ha riunito plasticamente potere esecutivo e potere giudiziario nella figura, unica, di Raffaele Cantone. Una forzatura mai provata prima, un’attribuzione di potere sconclusionata e soprattutto di modesta visione politica: Cantone viene esibito come una madonna pellegrina anche in luoghi dove le sue competenze sono povera cosa (infatti dovrebbe lavorare ad hoc una commissione interna dell’Anac).

I protagonisti umiliati e offesi hanno scelto strade diverse. Vegas è muto (peraltro il paradosso dei paradossi è che in questi giorni è stato nominato a capo dell’organismo che riunisce le Consob Ue), mentre a Ignazio Visco sono stati attribuiti diversi sentimenti, tra cui quello – piuttosto comprensibile – di un’ira molto, molto, motivata che lo ha portato, nel giorno stesso del sostanziale azzeramento, a colloquio con il capo dello Stato. In un retroscena apparso sulla «Stampa» se n’è raccontata la voglia di mandare all’aria il tavolo, dimettendosi, ma lui ospite da Fazio (Fabio e non l’ex collega governatore Antonio) ha negato decisamente. Ci ha fatto tenerezza, il governatore di Bankitalia, enumerava le proprietà dell’istituto come parlasse agli alunni di una scuola media, si diceva pronto a collaborare con Cantone perché il ruolo di Bankitalia non è quello di giudicare (quello di Cantone sì e per quali virtù teologali?), insomma provava a convincere gli italiani sulla necessità di un ruolo che in realtà il presidente del Consiglio aveva sostanzialmente annullato.

Ma al di là del ruolo e del valore delle persone, il metodo usato da Renzi è da colpo di stato istituzionale. Ha usato la forza pubblica (Cantone) per delegittimare chi non gli garbava più. Un’operazione a perdere, politicamente disonesta: il suo ruolo gli doveva imporre una riflessione seria ed eventualmente decisioni altrettanto serie. Ma pubbliche, come l’importanza di quelle istituzioni avrebbe richiesto.

PS. Ultima cosa. Corrisponde al vero che il presidente Mattarella nulla sapesse della nomina di Cantone ad arbitro del crac bancario?

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