Appalti

La lunga scia di sangue lasciata dal dossier «mafia-appalti»

14 Marzo 2022

Qualche giorno fa, per la precisione il 12 marzo scorso, in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Salvo Lima è andato in onda nell’edizione delle 14 del telegiornale regionale della Sicilia di Rai3 un servizio. Più che un servizio giornalistico si è trattato di una vera e propria agiografia di Salvo Lima, leader della corrente capitanata da Giulio Andreotti, ucciso dalla mafia a Mondello, località balneare della città di Palermo. L’omicidio fu commesso per ordine di Totò Riina dai mafiosi, poi diventati pentiti, Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante.

Salvo Lima e il “Sacco di Palermo”

Non solo le sue responsabilità, sia amministrative sia politiche, nei confronti della città di Palermo sono note a tutti, e sicuramente anche ai giornalisti della sede regionale Rai, ma ricordiamo, per chi è vittima dell’oblio, che Salvo Lima fu Sindaco di Palermo, con Vito Ciancimino assessore ai “Lavori pubblici” in quella stagione palermitana che oggi è ricordata come quella del “Sacco di Palermo”, una grossa speculazione edilizia realizzata anche con il rilascio di 4.000 licenze edilizie di cui 1.600 figurarono intestate a tre prestanome che non avevano nulla a che fare con l’edilizia. In quel periodo furono apportate innumerevoli modifiche al “Piano regolatore” di Palermo, modifiche che permisero alla società di Nicolò Di Trapani, un pregiudicato per associazione a delinquere, di vendere aree edificabili ad imprese edili, mentre il costruttore Girolamo Moncada, legato al boss mafioso Michele Cavataio, ottenne in soli otto giorni le licenze edilizie per numerosi edifici e il costruttore Francesco Vassallo, genero del boss della borgata Tommaso Natale Giuseppe Messina, riuscì a ottenere numerose licenze edilizie nonostante violassero le disposizioni del piano regolatore.

Salvo Lima e i suoi rapporti con la mafia

Nel 1963, nel corso di un’indagine, Salvo Lima ammise di conoscere superficialmente il boss mafioso Salvatore La Barbera e tale fatto fu riportato nella sentenza istruttoria sulla “prima guerra di mafia” depositata dal giudice Cesare Terranova nel 1964, e fu poi ripreso negli atti della Commissione parlamentare antimafia e nella relativa relazione di minoranza del 1976 redatta, tra gli altri, dagli onorevoli Pio La Torre e Cesare Terranova:

«Restando nell’argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato conoscevano l’ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori […] Basti considerare che Vincenzo D’Accardi, il mafioso del quartiere “Capo” (quartiere di Palermo, ndr) ucciso nell’aprile 1963, non si sarebbe certo rivolto ad Angelo La Barbera per una raccomandazione al sindaco Lima, se non fosse stato sicuro che Angelo e Salvatore La Barbera potevano in qualche modo influire su Salvatore Lima. Del resto, quest’ultimo ha ammesso di avere conosciuto Salvatore La Barbera, pur attribuendo a tale conoscenza carattere puramente superficiale e casuale».

Nel settembre 1992, invece, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta rilasciò alcune dichiarazioni secondo cui il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, al tempo guidata dal boss Angelo La Barbera, e aveva “raccomandato” il figlio ai fratelli La Barbera perché lo sostenessero elettoralmente. Buscetta inoltre affermò di aver conosciuto Lima alla fine degli anni cinquanta, quando era già sindaco di Palermo, e con lui si sarebbe scambiato una serie di favori, incontrandosi con il deputato nel 1980 durante la sua latitanza. Nel 1993 l’onorevole Franco Evangelisti dichiarò inoltre che Lima gli aveva confidato di conoscere bene Buscetta.

Lima, Guazzelli, Falcone e Borsellino: la lunga scia di sangue lasciata dal dossier “mafia-appalti”

Le motivazioni della sua morte sono generalmente identificate con l’incapacità attribuita a Salvo Lima di influenzare positivamente, tramite la sua rete di conoscenze, l’esito del maxi-processo. In realtà, l’omicidio di Salvo Lima sembra ascriversi in quella lunga scia di sangue lasciata dal dossier “mafia-appalti”. Le prime tracce, anzi evidenze, iniziano con le parole proprio di Falcone e Borsellino perché entrambi avevano capito che l’omicidio era scaturito dal rifiuto di Lima di intervenire presso la Procura di Palermo, in merito al procedimento nato dal dossier “mafia- appalti”, elaborato su impulso di Falcone dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Non solo. Sempre Falcone e Borsellino avevano capito che anche l’omicidio di Giuliano Guazzelli, maresciallo dei Carabinieri alla guida del nucleo di polizia giudiziaria al tribunale di Agrigento ucciso il 4 aprile 1992, poco meno di un mese rispetto a Lima, era da ascriversi ala dossier “mafia-appalti”. Il figlio del maresciallo Guazzelli, Riccardo, nel 2014, nel corso della sua testimonianza al processo “Bagarella e altri” di fronte al pm Vittorio Teresi, ebbe a dichiarare «Mio padre collaborava con il Ros. Era una collaborazione informale. Ma non era aggregato. Era alla sezione del Pg. Aveva collaborato per l’inchiesta mafia e appalti».

Singolare il fatto che lo stesso Vittorio Teresi, il 7 dicembre 1992 fu sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. In quell’occasione ebbe a dichiarare che, secondo quanto riferitogli di Paolo Borsellino «il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta (si riferisce al dossier “mafia-appalti”, ndr). Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male (…) andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul Procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine»» e che «Borsellino però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima». Ma, forse, nel 2014 Vittorio Teresi aveva dimenticato tutto ciò durante quel processo in cui, forse, avrebbe dovuto partecipare come testimone “informato dei fatti” e non come pm.

Anche Calogero Pumilia indica il dossier “mafia-appalti” come causa principale della morte di Salvo Lima

Ritornando all’agiografia trasmessa da Rai3 lo scorso 12 marzo, al termine del materiale di repertorio commentato,  propone un’intervista a Calogero Pumilia, già Deputato della Democrazia Cristiana, al tempo dirigente dello stasso partito in cui militava Salvo Lima. «Lima viene individuato come colui che non ha saputo, potuto o voluto, mantenere i patti. La storia politica del personaggio era una storia politica. Falcone aveva detto che Lima non era mafioso. Emanuele Macaluso aveva detto che Lima non era mafioso e aveva aggiunto che Lima utilizzava la mafia per fini anche politici come era, peraltro, nella tradizione di questa nostra terra dall’Unità (d’Italia, ndr) in poi. Lima si era sottratto dalla richiesta di intervenire sulla procura della Repubblica per bloccare l’indagine sul rapporto tra mafia e appalti. Era un uomo di confine, era quello che impediva che il confine fosse oltrepassato ma che aveva anche la possibilità di passare da un campo all’altro. Lima era un protagonista di questa politica e, alla fine, fu vittima, della stessa».

Ancora una volta, e sempre più spesso, assistiamo a una revisione non solo della Storia ad uso e consumo di una pseudo verità ma, proprio dai testimoni del tempo, rileviamo un uso strumentale della parole sia di Falcone sia di Borsellino, regolarmente provenienti da quello che egli stesso definì «covo di vipere», ossia la procura di Palermo, luogo in cui, nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via d’Amelio ma non solo, Paolo Borsellino non si fidava di nessuno dei suoi colleghi.

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