Il coraggio di chiudere bottega quando resta l’unica cosa sensata da fare
[Lettera a G.]. È stato un po’ un tonfo nel profondo del cuore averti in aula ieri mattina. Ultima fila. Avvolto in un cappotto chiuso di pensieri. Fatica a guardarmi in faccia. Intento a prendere appunti. Non una domanda. La solita tristezza del primo giorno che ti ho incontrato. Lo stesso vuoto che abbiamo instaurato tra di noi. La stessa faccia da saccente che sfida il mondo.
Poi la pausa dopo due ore. Scendo a respirare aria diversa dall’aula e mi avvicini. Dicendomi tre parole in croce.
G: Tu dovevi aiutarmi
Io: Credo di aver fatto tutto il possibile
G: Mi hai fatto chiudere l’azienda
Io: Era l’unico modo in cui potevo aiutarti
Ti allontani. Io finisco la sigaretta e rientro in aula. Tu no.
Ti ho ripensato solo in A4, rientrando a Vicenza ieri sera.
Avrei potuto risponderti in altri modi.
Magari umanamente avrei potuto lasciarmi andare a un umano “mi dispiace”.
Avrei potuto chiederti tante cose, prima fra tutte se mi stavi pedinando per dirmi quelle cose, o se hai aspettato di vedere il mio nome nel programma del corso.
Avrei potuto ma non l’ho fatto, perché non avrebbe cambiato la situazione.
Non ci sarebbe stato nulla da dire e neanche nulla da capire.
Non è stato facile lavorare con te. Un atto di fede. Una prova di sopravvivenza. È stata una di quelle esperienze che ti mettono alla prova prima a livello umano e dopo a livello professionale. Una consulenza che ti lascia il vuoto dentro, l’amaro delle risposte che preferiresti non avere in bocca, quel senso di impotenza e il rammarico di non essere arrivata prima.
Era novembre la prima volta che son venuta da te. Non era passato tanto tempo da quando ci siamo inventati una finta rivoluzione in un campo di Venezia, alzando ancora una volta il grido inascoltato delle piccole imprese contro il grande sistema, sordo alle esigenze di chi produce ricchezza e di chi si è fatto carico del ruolo sociale di fare impresa. Durante quel week end ci siamo incontrati. Mi hai parlato della tua azienda, dei tuoi prodotti, dei successi che avevi avuto. Sei stato subito chiaro. Mi hai detto che eri in difficoltà, ma neanche tu sapevi quanto male stavi. Son venuta da te. Qualche ora.
Sufficiente a capire che la mia presenza sarebbe solo servita a incipriare la salma e dargli degna sepoltura. Perché basta poco per annusare l’odore di morte, se lo conosci poi ti risulta più facile. Ti avevo scritto due diagnosi: una via mail cercando di addolcire la situazione, una sul mio vecchio blog Tramonti sul Nord Est. Sì, quello che ho dovuto chiudere perché accusata di “denigrare le imprese venete”. La tua era una delle storie da tramonto di un Nordest che non è più quel Nordest.
Prima dei pini prima dell’uscita di Padova Est la mia memoria è ritornata dentro al tuo capannone vuoto. Lo stesso odore di niente, lo stesso silenzio di vuoto. Quel capannone che aprivi tutte le mattine sapendo che solo alzando l’interruttore della corrente buttavi via soldi. Quel capannone sotto casa tua. Solo un giro di scale ad unire e fondere la vita lavorativa con quella personale. Quel capannone di cui solo tu avevi le chiavi. Perché ai tuoi due figli di portare avanti l’impresa non è mai interessato nulla. E lo sapevi meglio di loro, ma te lo negavi. Sei sempre stato un gran lavoratore. Tipicamente veneto. Instancabile. Ore, ore, ore. Sacrificando tutto il resto. Gran bei lavori. Meravigliosi, importanti, prestigiosi. Arrivati dal cielo. Arrivati perché altri si rifiutavano di farli mentre tu li sapevi fare e tu li facevi, magari senza dargli il giusto prezzo. Sei sempre stato veneto inside. Anche quando hai provato ad andare fuori dei confini.
Col tipico approccio veneto. Faccio la valigia e prendo l’aereo. Lo spirito tipicamente italico dell’avventura accoppiato a quello tipicamente veneto dell’improvvisazione. Perché da titolare eri anche l’export manager della tua azienda. Il commesso viaggiatore sempre in giro, che visita fiere, che incontra gente. Tutto in un’unica persona. Perché se perde tempo e perde soldi qualcuno, quel qualcuno deve essere il titolare.
Quando ti ho chiesto perché non ti sei mai affidato a qualcuno di più competente mi hai mostrato i chili di carta piena d’inchiostro che ti hanno fatto pagare altri consulenti. E li non ho potuto far niente che arrendermi di fronte all’evidenza: quando è sfiga è sfiga. Unica spiegazione.
Ti sei lanciato sul campo di battaglia senza uno schema né di attacco né di difesa. Quell’ “armatevi e partite” che io predico da anni a tutti quelli che vogliono avviare un percorso export, l’hai, come altri, interpretato come un embargo alla tua voglia di fare, come un atto terroristico per bloccare l’entusiasmo, come un “mettere troppa paura”. Eppure, come a tutti, sono la prima a dire che un percorso export non è impossibile, è solo complesso e ha bisogno di essere studiato a tavolino. Hai sempre confidato in incontrollati e inconsistenti canali di informazione, concorrenti o amici, elaborato strategie basate sul “ho saputo, mi hanno detto, ho sentito dire” e preso borse, macchine e aerei per essere immediatamente operativo. Mi hai chiesto di aiutarti. Dicendomi che non c’erano soldi. Ho rifiutato. Mi hai chiesto di trovarti clienti immediati. Non li ho cercati.
Hai odiato il mio rifiuto. Io invece so di aver fatto, questa volta, la cosa giusta. E continuerò ancora. Continuerò ancora quando sento odore di morte in una impresa a dire “l’unica cosa che dovete fare è chiudere, non avventurarvi in un percorso estero cercando fuori dai confini nazionali la soluzione di tutti i mali”. Continuerò a sentenziare “no, tu no” se non ci sono le condizioni, almeno quelle di base, per avviare un percorso estero. Continuerò a farlo. Lasciando lavoro ad altri consulenti. Ma dormendo in pace. Con la mia coscienza.
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