Trump e il valore della provincia spiegati a Severgnini
Beppe Severgnini, in un pezzo dimenticabile oggi sul Corriere della Sera, fornisce la sua ricostruzione psicosociale della vittoria di Trump negli Stati Uniti (Dio come gli brucia, fa quasi tenerezza). Si domanda perché nelle grandi città vinca la Clinton, mentre nei piccoli centri e nelle campagne vinca Trump. Ecco la sua risposta: «Le città forniscono gli anticorpi contro i demagoghi e le loro lusinghe… Le città disturbano… tutto porta stimoli e fatica, passioni e dubbio… L’isolamento, invece, riduce gli stimoli e conferma le convinzioni; quand’è prolungato, facilita le ossessioni».
Racconto allora un breve aneddoto che può aiutare Severgnini a uscire dal complesso di inferiorità che da anni lo condanna a cercar di dimostrare quanto la sua mente si sia aperta al grande mondo, pur essendo lui nato in una piccola città di periferia (peraltro meravigliosa, e nella quella anche io vivo).
Qualche mese fa mi trovavo ad Arcore con Silvio Berlusconi (non si preoccupi Severgnini, il bello deve ancora arrivare), e a un certo punto decisi di rivelargli quanto mio padre, classe 1934, da Soresina, fornaio poi trasformatosi in piccolo imprenditore dolciario, fosse da sempre un suo convinto sostenitore. Berlusconi mi chiese se potevo chiamarlo e io lo feci. I due pressoché coetanei parlarono al telefono per pochi minuti con volume al massimo (tanto lucidi nel giudizio, quanto opachi nell’udito…), e il contenuto del dialogo arrivò pertanto nitidamente a me e agli altri due presenti. Un passaggio della conversazione torna utile oggi. Berlusconi chiese a mio padre se ancora gli piacessero le donne, ricevendo prontamente risposta positiva. Ma la domanda successiva fu: «E fai ancora loro la corte?». Io ebbi un istante di disagio, l’altissimo volume aveva trasformato la telefonata in una conferenza in viva voce. Sarei stato costretto con i presenti ad ascoltare la risposta. «Io ho fatto la corte a una sola donna nella mia vita, e quella donna è in cielo». Ecco la risposta che ascoltammo.
Ecco cosa fanno le persone semplici e vere. Non giudicano, anche se la loro vita è cento volte più corretta e morale della tua. Sanno perdonare e guardano un poco più avanti, a chi magari è più libero, capace di decidere partendo dalla realtà e non da condizionamenti invisibili a loro incomprensibili. Guardano a chi, pur tra mille errori, nella vita ha combinato qualcosa, qualcosa di suo, di vero e non pagato da altri. Hanno un concetto di credibilità a medio-lungo termine, non capricciosamente e ossessivamente legato al botta e risposta del talk show preelettorale.
Le persone semplici ragionano, spesso in dialetto, ma ragionano, non pretendono. Le persone semplici si stupiscono che nelle grandi città la gente non si saluti mai. Si domandano cosa avranno mai da nascondere, cosa gli manchi per alzare gli occhi conficcati al suolo.
Sono certo che molti amici di Severgnini, magari come lui da anni stipendiati da questi ricchi inguardabili editori, alla domanda insidiosa di Berlusconi avrebbero risposto con un sorriso di circostanza mista a connivenza. Per poi tornare a casa, lontani, e scrivere di nascosto, in un articolo o in un post, quanto malato e pervertito sia quel danno sociale che da vent’anni ammorba la scena politica nostrana.
C’è invece chi, all’istante, senza nascondersi e senza calcoli, dice gratis la verità, differente e contrastante. E c’è chi poi lo vota, perché il voto è una cosa seria, il voto è un investimento, il frutto di un ragionamento. Non è una coccola all’ovatta tra benpensanti. È roba forte, non bastano quattro parole accomodate per meritarlo.
Ecco, Severgnini, lontano dalle metropoli succede anche questo. Ricorda?
Un commento
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Non ho capito il legame fra le due faccende. Boh!