Sul concetto di «modernità» e l’uso corretto delle parole
Qualche giorno fa il sottosegretario Graziano Delrio, rispondendo agli attacchi che la minoranza del Partito Democratico e voci ‘terze’ quali Laura Boldrini, ha affermato che «la sinistra che ha paura della leadership ha dei problemi con la modernità». Non voglio entrare nel merito delle affermazioni del sottosegretario, e su questo sito si è ottimamente espresso Michele Fusco («Una modernità sostanzialmente siliconata, che non esisterebbe se non esistessero i “nemici” e che dunque non vive su un riscontro diretto all’interno della società più sviluppata»), ma entrare nel merito dei termini. Qualche anno fa, Nanni Moretti ci insegnava che le parole sono importanti. Decenni dopo, siamo arrivati a una politica che si esprime attorno all’arte del racconto, che uccide le ‘grandi narrazioni’ proponendo tantissime micro-narrazioni in cui riconoscersi e legate agli orizzonti ‘minimi’ dei singoli. E in queste narrazioni, in questi racconti, si usano parole-chiave, parole che ‘attivano’ i significati. Ma sono significati nuovi, per certi versi differenti e sganciati dalla storia, dalla tradizione e dal legame etimologico. Le parole funzionano perché sono cariche di significato, quando queste vengono disinnescate, quando vengono usate come passepartout, allora non solo perdono il loro senso, ma non riescono ad acquistarne uno nuovo. Sono parole vuote, buone per far andare avanti il racconto, meno buone per far andare avanti la politica.
Una di queste parole è «modernità». Un concetto fantastico e buono per tutto. È una parola corta ma non cortissima, sta nei tweet e richiama un immaginario fatto di ottimismo, progresso, di costruzione di un qualcosa che prima non c’era e adesso – magicamente – c’è. Parlare di «modernità» è parlare di ottimismo, di un disegno del mondo che vogliamo, che ci permette di credere a un orizzonte possibile fuori dalla palude dei gufi.
C’è solo un problema. La «modernità» è uno dei concetti più vecchi che esistano.
La «modernità» è la vita nella metropoli, la nuova frontiera della tecnologia che rende possibile la Seconda Rivoluzione Industriale, la catena di montaggio e la produzione di massa. La «modernità» è il periodo storico in cui trionfa la classe borghese, che di fatto la recente crisi economica ha contribuito ad azzoppare. La «modernità» è il momento in cui, da un punto di vista artistico e culturale, si riflette sulla tecnologia e sui meccanismi che rendono possibile l’espressione artistica stessa.
Il cinema della modernità, ad esempio, trova il suo punto di massima espressione in Jean-Luc Godard e Michelangelo Antonioni, e si esprime grazie a quella che Giorgio De Vincenti chiama «l’articolazione reciproca di riproduzione e metalinguaggio», che permette di riflettere sia sulla crisi della società, sia sul rapporto tra le arti, sia sul cinema stesso. In letteratura, lo stile moderno è quello di James Joyce e di T.S. Eliot, di Luigi Pirandello e di Carlo Emilio Gadda, che flirta con le avanguardie artistiche, che distrugge la trama lineare del racconto Ottocentesco, che riflette sulla ‘struttura’ come metafora della società contemporanea (laddove l’artista romantico aveva l’ambizione di usare la poesia come ‘azione’ sulla realtà).
Le immagini simboliche della «modernità», quindi, sono quelle di Charles Baudelaire che parla del flâneur come di un esploratore della città che cambia forma, e quelle raccolte da Walter Benjamin nei suoi Passages parigini. Una nuova figura di personaggio aperto alla ricettività, pronto a catturare i frammenti del mondo e a riflettere su quello che stava succedendo nella realtà di un Novecento da analizzare attraverso lenti nuove.
Di fatto, la «modernità» è sostanzialmete antitetica rispetto al nuovo racconto della politica contemporanea. Quando un qualunque politico contemporaneo parla di «modernità» non sa di fare riferimento a un sistema e un immaginario che non avrebbe reso possibile la sua stessa azione politica. Da un lato perché è impossibile immaginare la «modernità» fuori dall’epoca delle ‘grandi narrazioni’, e quindi di una prospettiva ideologica, con una consapevolezza della relazione tra l’uomo e la macchina. Dall’altro perché lo sforzo del progresso va fatto verso soluzioni che ancora non ci sono, che ancora non si sono immaginate, che analizzano la realtà, ne decretano l’attuale stato di crisi (e non dico ‘crisi economica’) e cercano di agire senza limitarsi a una gestione inattuale del’esistente.
Quasi a dire che la politica attuale la «modernità» se la deve meritare. O quantomeno deve sforzarsi di capire di che cosa si parla quando si parla di modernità. Qualcuno ne è consapevole, ad esempio Franco Cassano che ha recentemente dato alle stampe un breve pamphlet che riflette sulle esigenze della sinistra in uno scenario dove manca la sua missione storica; oppure Walter Tocci, che nei suoi interventi e nei suoi articoli riflette spesso sulla relazione tra la politica attuale come politica di distruzione e quindi assolutamente non dialettica e quindi non moderna.
Ma le parole non sono più usate per dare un significato, disegnare un’azione, segnare un perimetro che riflette il nostro sistema di riferimento. Le parole servono semplicemente per dividere ‘noi’ da ‘loro’ (la polarizzazione del nemico come ‘antimoderno’, laddove la «modernità» sarebbe rappresentata da leggi delega del Jobs Act approvate senza tener conto del parere delle Commissioni competenti). Sono contenitori vuoti usati da chi li prende per primo, che esprimono il racconto di chi le usa perché le usa prima degli altri. Usare le cose a sproposito non interessa, perché non c’è più l’ambizione di raccontare e analizzare la realtà. Semmai, l’ipotesi di creare un racconto cui tutto si deve adattare, cui tutto deve rientrare. E se vogliamo, questa, è la cosa meno «moderna» che ci sia.
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