Partiti e politici

Senza il coraggio dell’eresia siamo al regime

31 Marzo 2015

Nella politica del ‘900, della Sinistra del ‘900, l’eresia ha avuto sempre un posto importante. I cento anni di Pietro Ingrao, il comunista “eretico” per eccellenza, uomo del movimento e delle istituzioni con la stessa passione utopica e concreta per cambiare la vita delle “persone in carne e ossa” sono oggi a dimostrarlo.

Il dissenso è stato il segno della libertà culturale e dell’integrità morale che si poteva praticare nella sinistra italiana, lo spazio del coraggio delle idee, il discrimine tra un’idea di partito sovietica, “orientale”, fondata sulla disciplina e sulla struttura gerarchica dei gruppi dirigenti e un’idea di partito democratica, “occidentale”, (non a caso il PCI di Togliatti e Berlinguer indicava una “via italiana al socialismo”) in tensione continua, a volte drammatica, tra “centralismo democratico” e valorizzazione delle differenze e dei contributi originali di tutti.

Il gruppo dirigente che ha contribuito a ricostruire il Paese dopo la seconda guerra mondiale si è costruito su questo crinale, sulla scommessa di una comunità di teste pensanti, una diversa dall’altra, che lavoravano a trovare una sintesi tra grandi temi, tra opzioni strategiche, rispettandosi e/o conquistandosi lo spazio per la dignità politica delle posizioni di ciascuno, spazio che diventava ricchezza democratica preziosa soprattutto fuori dai palazzi del potere.

Quando la politica viveva nelle sezioni, nei circoli, nelle associazioni, dove tutti potevano entrare e interagire, col riconoscimento della pari dignità, con un gruppo dirigente che al confronto con i leader dei nostri giorni giganteggiava dalla stratosfera del pensiero e dell’efficacia dell’agire collettivo. E lo spazio dell’eresia alimentava il sogno, quello che da la forza di andare avanti “nella lunga serie di notti in cui marcia, senza bandiere, la vita” come diceva Pasolini.

Oggi nel “Partito della Nazione” che il PD è diventato di fatto (e in parte “a sua insaputa”) i dissidenti rispetto alla leadership mediatica scelgono la strada della sottrazione, enunciare il dissenso ma evitare il conflitto, rifugiarsi nella tattica parlamentare, puntualmente spazzata via a colpi di fiducia. Uscire al momento del voto in direzione per “segnare l’alterità”.

Ma con quale risultato? Certificare l’unanimità per la linea del leader per evitare di contarsi, e di dare la misura della propria consistenza, o inconsistenza, di schieramento alternativo. Non si sa se ci si vergogna di più a scoprirsi come anti-renziani o a ritrovarsi sul carro del vincitore nel loggione di chi spera di non avere bruciato tutte le chanches per la ricandidatura.
Dirigenti di grande qualità e spessore culturale si sono imbalsamati così, nell’ultimo anno. Tristemente. E ora hanno soltanto un “grande avvenire dietro le spalle”.

Paradossalmente, la mediocrità del gruppo dirigente sulla cresta dell’onda, nel partito e nel governo, è la più strutturata e plumbea di tutta la storia repubblicana. Insopportabile, soprattutto perché non si vedono alternative.Come può vivere in queste condizioni un grande partito-società, che rappresenta il 40% degli italiani, che governa ormai dappertutto mentre i suoi avversari si sbriciolano, come può crescere senza l’ossigeno del dissenso, senza il respiro dell’eresia? Rispolverando il centralismo democratico?
Si merita questo l’Italia? Quella del “popolo lavoratore”, la platea a cui si sanno chiedere soltanto sacrifici senza corrispettivo (e senza neanche gli 80 euro per tutti)?

Forse sì, se questa Italia è anche il Paese più corrotto d’Europa, “in questo mondo di ladri” come cantava Venditti. Forse ha il gruppo dirigente che si merita. Ma come abbiamo fatto a diventare così? Sarebbe il momento di chiederselo. Perché quando una democrazia si trasforma in un regime nessuno è innocente.

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