Partiti e politici
Se Meloni studia da Andreotti, gli italiani si inventeranno un nuovo populismo?
Non me ne voglia la buonanima di Giulio Andreotti, gli sparuti e ormai canuti nostalgici del tempo politico che lo vide protagonista, e nemmeno Giorgia Meloni. Il titolo è una provocazione nei confronti di entrambi i menzionati, e sicuramente riesce ingeneroso nei confronti del sette volte presidente del Consiglio e trentaquattro volte ministro – nessuno come lui – ma anche della prima donna presidente del Consiglio – nessuna come lei. E tuttavia, l’estate che si chiude, flagellata dal cambiamento climatico e dall’inflazione, terminate le vacanze che abbiamo fatto noi fortunati che possiamo permettercele, è una stagione che segna simbolicamente un passaggio di grado, nel percorso di normalizzazione istituzionale di Giorgia Meloni. Non sappiamo – non lo sappiamo mai, nella vita – cosa succederà: epperò sappiamo cosa è successo. È successo che, dopo una lunga anticamera e con la sacca degli scalpi quasi tutta vuota, come ha annotato a suo tempo Rino Formica sul Domani, la nostra presidente del Consiglio è stata ricevuta dal collega statunbitense Joe Biden. Direte: “ma era un sacco di tempo fa, era addirittura luglio, e ormai c’è l’autunno alle porte!”. È vero, e però ricordare quel che è successo, e poi è stato mangiato dai tempi della cronaca è utile, anzi fondamentale, per guardare le cose in prospettiva. Per ricordarci che non c’è solo un presente sempre più veloce nel diventare passato, ma anche un passato – più o meno recente – che parla di noi, del presente e del futuro, anche se troppo velocemente ce lo dimentichiamo.
Quella visita istituzionale, quel desiderio di essere come tutti quelli che sono durati, quell’ambizione di rispettabilità internazionale, è il fondamento su cui poggia l’estate di Giorgia che sta finendo e, soprattutto, l’autunno che sta iniziando. Solo una tappa intermedia rispetto agli obiettivi di medio e lungo periodo che la presindente del Consiglio coltiva con una certa chiarezza: durare, durare a lungo, una legislatura, e poi un’altra, sapendo bene che non sarà facile, ricordando ancora meglio che chi l’ha fatta facile adesso fa, obtorto collo e con tanti mal di pancia, il suo vice. Tirare a campare – sempre ad Andreotti si ritorna – è sempre meglio che tirare le cuoia. E non è certo un caso che, ora che l’estate finisce, il grande protagonista dell’azione e della comunicazione di governo è il ministro più andreottiano di tutti, Giancarlo Giorgetti. Chi ha occhi in giro per Roma racconta che la mattina presto il superministro dell’Economia va a messa nella stessa chiesa in cui ogni mattina ci andava Giulio Andreotti, subito dopo aver incontrato i suoi più fidati collaboratori, da Gianni Letta a Luigi Bisignani. E di candele votive, adesso che arriva l’autunno caldo della manovra, con la crescita che rallenta, la cassa che piange, le famiglie e le imprese morse dall’inflazione, Giorgetti ne dovrà accendere un bel po’. Che è preoccupato, lo si capisce bene, visto che – lui che non parla spesso, anzi – sta parlando continuamente, dal Meeting di Rimini al Forum Ambrosetti, di quanto pianga il piatto del bilancio pubblico. Anche ieri, dal tradizionale incontro del bel mondo imprenditoriale che si svolge sul Lago di Como a fine estate, è tornato ad attaccare il disastro del Superbonus che ha appesantito gravemente i conti pubblici. Li stime parlando di diversi miliardi ogni mese, e un conto totale che si aggirerà, alla fine, attorno agli 80. Due manovre, due finanziarie, si sarebbe detto una volta.
Al solito, però, un po’ di memoria non guasta. Il Bonus 110% fu approvato in piena pandemia dal governo Conte 2, nell’estate del 2020. Era una misura costosa ed espansiva, pensata per iniettare altro danaro nelle tremebonde vene di un paese spaventato dall’evento catastrofico e inaspettato del Covid.Era una misura con molti limiti, sicuramente costosa, ma era coerente con un contesto globale di forte spesa e di poca attenzione al crescere del debito, perchè “bisognava ripartire”. Contribuì in piccola parte all’inflazione, checchè se ne dica, che fu e resta un fenomeno globale. Contribuì invece molto ad appesantire i conti pubblici italiani. Resta vero, tuttavia, che pochi mesi dopo cambiò il governo, come ricordiamo tutti, e dopo Conte sostenuto da Pd e 5 Stelle arrivò Draghi, sostenuto da tutti tranne Fratelli d’Italia. Al governo tornò anche Giorgetti, storicamente molto vicino a Draghi, come ministro delle infrastrutture, e come uomo forte della Lega di Salvini che doveva ripulirsi dopo l’estate del Papeete che, nell’ultima estate prima del Covid, aveva aperto la strada al ribaltone. Bene, quel governo di tutti, guidato dai “migliori” confermò e prorogò il superbonus, che da misura emergenziale e “per la ripresa” divenne strutturale. Draghi e il ministreo dell’Economia Daniele Franco timidamente provarono a revocarlo o almeno ad alleggerirne il peso (dal 110% al 100%, sempre un sacco di soldi), ma non se ne fece nulla. Perchè? Perchè i partiti non vollero. Naturalmente non voleva il Movimento 5 Stelle, ma neppure gli altri, e neanche la Lega di Salvini e Giorgetti si spese. Nessuno voleva andare a dire agli elettori, ai proprietari delle villette e alle imprese edili, che lo stato avrebbe smesso di regalare loro soldi per rivalutare la propria casa e pagare lavoro e materie prima a spese della collettività. Questo è successo, e va ricordato.
Va ricordato perchè l’antica arte di incolpare sempre qualcun altro cancellando la propria parte di responsabilità non è mai passata di moda, e anzi lo è adesso, più che mai, che il passato recente di una storia politica può essere messo in archivio fino a sembrare remotissimo, addirittura mai esistito. Sì, penso anche e anzitutto a Giorgia Meloni, che si prepara a vivere la prima lunga – soprattutto per noi – campagna elettorale della sua vita da donna di governo, e non di lotta. Sarà un passaggio importante per consolidare un percorso, un volto nuovo, una serie di attitudini che sembravano impossibili appena un paio di anni fa. Tanto più che il percorso di avvicinamento alle Europee del 2024 avviene partendo da una manovra di bilancio che, appunto, non potrà permettere regalie o soldi a pioggia, anzi. Schiacciata tra alleati e oppositori che conoscono la tradizione e la tentazione del populismo, a Giorgia non resta alternativa al centrismo, al corpo grosso conservatore di un paese vecchio, che ad Andreotti continua ad assomigliare, in fondo, seppur per difetto (di intelligenza e acume, quantomeno). Ma a questo punto, e data questa traiettoria, una questione di medio periodo si pone, e ci riguarda: riuscirà quest’esperienza di governo a trascinare nella stabilità e nella durata queste tentazioni, e in qualche modo a sconfiggerle, oppure il piatto che piange e le casse dissanguate, l’inflazioni e le crisi aziendali, faranno da brodo di coltura per un populismo vecchio o, più facilmente, per uno nuovo, che ancora non abbiamo visto arrivare? Ci sarà un/a Meloni, per Giorgia Meloni? Non è per oggi o domani, la risposta, e non riguarda solo la democrazia italiana. E tuttavia, la questione è sul tavolo e, ben oltre, disegna anche la linea dell’orizzonte, ben al di là delle prossime Europee. A quelle e solo a quelle sembra pensare la maggioranza dei politici. Noi prendiamoci la briga di guardare oltre, che loro magari passano, il paese e i suoi problemi restano. Forse.
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