Partiti e politici
Salvini si prende l’Italia, Il Pd si accontenta, per i 5 Stelle è notte fonda
Quel che doveva succedere, alla fine, è successo. La Lega di Matteo Salvini – ampiamente egemone nel dibattito pubblico e mediatico, e nella capacità di dettare l’agenda a un governo di cui era in principio socio di evidente minoranza – è il primo partito d’Italia. Primo, per distacco. Primo, nonostante le lunghe e pensose analisi che annunciavano una crisi già in corso. Arriverà, forse, ma in un domani che per il momento non pare imminente, mentre ieri è stato votato all’incirca da un elettore italiano su tre. Sia all’interno dello schema di governo nazionale coi 5 Stelle, sia all’interno del vecchio centrodestra, è il perno indiscusso di due coalizioni diverse che però raggiungono entrambe circa il 50% dei voti.
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La vittoria della Lega assume i contorni del trionfo non solo per i dati assoluti, ma per alcuni elementi di dettaglio che vale la pena almeno di elencare. È un trionfo che conferma la sua forza, apparentemente non scalfibile, al Nord. Propio quel Nord che – ci raccontavano gli analisti – covava seri mal di pancia per il reddito di cittadinanza concesso al meridione pentastellato; quello stesso nord delle Pmi venete e friulane spaventate dagli accordi commerciali con la Cina; quel nord preoccupato per le titubanze sulla Tav; insomma, quel nord che a qualcuno sembrava addirittura uno zoccolo duro pronto a cedere costituisce invece la base per una vittoria di proporizioni schiaccianti. In Veneto supera la barriera del suono e intravvede là in alto, perfino, la soglia del 50% solitario. La Lega si fermerà forse appena sotto, ma insomma, parliamo di una forza politica che da quelle parti può tranquillamente fare e disfare, da sola. In Lombardia, nella terra in cui nacque il marchio, il trionfo è appena più temperato, supera il 40%, ma fa intravvedere l’ipotesi di un’impensabile 28% anche nella Milano roccaforte del centrosinistra. A proposito, forse, varrà la pena di dubitare un po’ delle troppe certezze che promanano dalla capitale del Nord, visto che il Pd mantiene la leadership in città raggiungendo il 35%, ma risulta ampiamente sopravanzato nella città metropolitana, mentre un centrodestra unito attorno a un buon candidato, oggi, potrebbe sfidare chiunque perfino a Milano. In ogni caso, se anche il modello politico del capoluogo lombardo tiene, Milano assomiglia sempre di più a un’isola, sempre più isolata dalle tendenze nazionali. In Piemonte, ad esempio, da sempre la “meno leghista” delle regioni del Nord, la Lega sta comodamente sopra il 30% e tutto il centrodestra, unito nella sfida per le elezioni regionali, non farà fatica ad archiviare l’epoca di Sergio Chiamparino.
Ma è scendendo lungo lo stivale, naturalmente, che i numeri fanno più impressione. La Lega sembra é il primo partito in Emilia Romagna e arrivando seconda per pochi punti in Toscana, dove comunque conferma sostanzialmente la media nazionale. In Umbria e nelle Marche viaggia tra il 35 e il 40%, staccando largamente il Pd. Mentre nel Lazio di Nicola Zingaretti si profila un testa a testa per la leadership, giocata da entrambi al pelo del 30%. Il partito di Salvini sarà il primo in Abruzzo e in Sardegna, gioca per la ledership in Puglia e pare comunque destinato ad un’onorevolissima seconda piazza in Basilicata, Calabria e Sicilia. Insomma, l’evoluzione a partito nazionale è definitivamente compiuto.
È con questo dato che, al momento, devono confrontarsi compagni di governo della Lega e suoi sfidanti.
Partiamo dai primi. Per i 5 Stelle la botta è di quelle dure da digerire. Le proporizioni di un anno e mezzo fa sono esattamente rovesciate. Certo, le europee non solo elezioni favorevoli per loro, e il voto europeo del 2014 è lì a ricordare – a tutti – che in politica come nella vita nulla è per sempre. E sicuramente preconizzare ancora una voltala loro morte politica potrebbe rivelarsi prematuro. Ma i numeri che si depositano restano schiaccianti. I 5 Stelle non raggiungono la soglia psicologica del 20% che pure avevano tenuto nelle disastrose europee di cinque anni fa. Si fermano in realtà ben lontani da quel numero. Soprattutto, in termini di voti assoluti, vedono sostanzialmente dimezzati i consensi rispetto al 4 marzo. È vero che parliamo di contesti e sistemi diversi, ma la sconfitta ha proporizioni enormi, e ovviamente indurrà a riflessioni ma anche, semplicemente, a un bel po’ di inevitabile depressione. Non hanno dato i loro frutti le misure bandiera sui cui aveva puntato tutto Luigi Di Maio. Non ha aiutato la ripresa il continuo tentativo di distinguersi da Salvini, anche attaccandolo frontalmente. Ora il partito fondato da Grillo e Casaleggio si ritrova grosso in parlamento ma già messo sotto scacco dall’alleato leghista, e piccolo nel paese, con la paura di sparire. La tentazione di un rigenerante ritorno all’opposizione è sbarrata dall’assenza di alternative nell’attuale parlamento, mentre l’ipotesi di tornare al voto rischia di spaventare molti dirigenti e parlamentari che andrebbero incontro alla certezza di non essere rieletti o neppure ricandidati. Anche la tentazione di un’improbabile ribaltone col Pd esce, se possibile, ancora più debole, da queste urne.
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Del resto, anche la voglia di strappare il contratto, per fare il presidente del consiglio di un governo di centrodestra che molti attribuiscono a Salvini, deve comunque misurarsi con molte incognite e con una remora: perché Salvini dovrebbe voler riconsegnare la golden share della maggioranza a un decadente Berlusconi, quando può continuare a fare campagna elettorale permanente dalla poltrona del Viminale? Si dice: “ma non avranno il coraggio di fare una manovra da 35 miliardi!”. Eppure, qualcuno la dovrà pur fare, e siccome comandare è preferibile a dover smettere di farlo, possiamo credere che quella manovra, appunto, la faranno.
In questa situazione, colpisce un po’ la stravagante esultanza di diversi esponenti del Pd zingarettiano. Evidentemente l’obiettivo era quello di arrivare davanti ai 5 Stelle, ed è stato ampiamente raggiunto. In questo modo la segreteria di Zingaretti compra tempo e spegne sul (ri)nascere l’eventuale guerriglia dei renziani. Ma è davvero poca cosa se si considera un quadro generale in cui il blocco di governo, che nella narrazione della sinistra italiana e dei media mainstream dovrebbe essere foriero di ogni disastro, raggiunge comunque una metà dei consensi espressi. Ed è un’esultanza ancora meno comprensibile se si osserva che l’alleanza di centrodestra – con quel che resta di Berlusconi, mangiato da destra anche da Fratelli d’Italia – con cui la Lega si è presentata alle politiche dello scorso anno e all’interno della quale si schiera ad ogni tornata amministrativa raggruppa all’incirca il 50% dei consensi e vincerebbe a mani basse con ogni sistema elettorale sensato. Insomma, forse troppo preoccupato di estentuanti vicende interne, anche questa volta il Pd non sembra avere ritrovato la via di un rapporto con la società e con il paese, e non basta aver fatto meglio di chi può solo raccogliere i cocci di un disastro a dirsi soddisfatti. Quantomeno, non dovrebbe bastare. Anche perché, se non cambia qualcosa, la prospettiva di tornare a incidere governando diventa via via meno probabile, mentre sempre più concreto, per il Pd, è il rischio di perdere città e regioni amministrate fino a ieri, e magari da decenni.
Come tutte le elezioni europee, insomma, anche questa segnano un momento di transizione, una verifica dei poteri, e ridefiniscono la proiezione del nostro paese nelle istituzioni comunitarie. Lassù, in Europa, si giocheranno le partite più importanti per i conti pubblici e per gli equilibri nazionali e internazionali. La maggioranza italiana, espressa e incarnata dalla Lega di Salvini, non sarà, con ogni probabilità, nella maggioranza di governo europeo, e potrà anzi continuare a giocare agevolmente la doppia parte di governo e opposizione contemporaneamente. Qui lamentandosi dei tecnocrati europei che non lasciano governare in pace il Capitano, e là rivendicando i grandi risultati che il governo potrebbe raggiungere se: e viceversa, ovviamente.
Schema che vince, del resto, non si cambia.
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