Partiti e politici
Ricciardi: «Sinistra afona come i giovani filosofi, i grandi crucci di Veca»
È un pomeriggio di sole, di quelli che invitano al caffè e alla conversazione. Una compagnia suadente, cui manca solo – nel bar ai piedi della “sua” Fondazione Feltrinelli, di cui era presidente onorario – la voce di Salvatore Veca. Lo ricordiamo con Mario Ricciardi, ordinario di Filosofia del diritto alla Statale di Milano, direttore della rivista de Il Mulino, voce autorevole nel dibattito italiano e internazionale. Ne parlo con lui perché proprio con lui ebbi l’onore di dibattere, assieme a Salvatore Veca, nelle stanze della Fondazione su uno dei suoi ultimi libri, nel 2018. Il giorno dopo la nostra conversazione, ai funerali di Salvatore Veca, in una chiesa di Porta Romana non è presente nemmeno con qualche esponente il Pd nazionale. Quel partito che, senza il pensiero di Veca, forse non sarebbe neppure mai nato. Tenetevi a mente gli assenti, perché torneranno nelle righe che state per leggere.
D: Chi era, chi è stato per te, Salvatore Veca?
R: l’autore di libri o il promotore di pubblicazioni che ho cominciato a leggere da studente. Libri che parlavano di un mondo che in Italia non era ancora conosciuto, soprattutto al sud dove sono cresciuto io. Era il mondo della Feltrinelli, del Saggiatore, della Centro Studi Politeia. Era il mondo del riformismo milanese che, con un certo anticipo aveva aperto la via a un dialogo profondo e proficuo tra socialisti e comunisti.
D: Ma tu vieni dalla regione di Napolitano, un riformistissimo…
R: Ma là era più complicata la faccenda, qua Comunisti e Socialisti governavano insieme. Quei libri rivelavano un universo di idee che in Italia era del tutto ignoto. Non era solo la Teoria della giustizia di Rawls, ma anche Bernard Williams, Robert Nozick… Thomas Nagel… è impressionante guardare il catalogo di libri che Il Saggiatore e la Feltrinelli hanno pubblicato su impulso di Salvatore. È stato lui a portare nel dibattito del nostro paese il meglio del dibattito filosofico-politico del mondo anglosassone. In seguito, Salvatore è diventato un professore che, mentre muovevo i primi passi nell’accademia, ho cominciato a incontrare alle conferenze, e fin da subito si distingue, nei miei ricordi, come uomo gentilissimo e disponibile ad ascoltare domande e osservazioni anche di neolaureati o dottorandi. E poi, dopo la mia esperienza in Inghilterra e il mio rientro in Italia, e in particolare a Milano, è diventato un interlocutore da diversi punti di vista, e da un certo punto in poi anche un amico con cui ho potuto collaborare in diversi contesti: Casa della Cultura, fondazione Giangiacomo Feltrinelli, qualche pubblicazione. Così ho conosciuto e apprezzato quest’uomo pieno di talenti. Non solo il filosofo che tutti conoscono: l’insegnante, l’intellettuale, ma un uomo pieno di curiosità e interessi, dalla musica al teatro all’architettura, di cui era appassionato. In generale, gli stavano davvero a cuore i problemi del vivere insieme nella città. Se penso a quello che è stato per me, e molti di noi, sono certo che non sarei quello che sono se non avessi incontrato sul mio cammino Salvatore Veca. All’inizio degli anni 90, ad esempio, ero giovane e sconosciuto, e feci un libro con Ian Carter pubblicato da Feltrinelli. Fu grazie a Veca che scommise su di noi.
D: Il tuo riferimento all’architettura mi ricorda un’impressione che mi porto di Veca fin dai nostri primi incontri risalenti ai primi anni duemila, a Pavia. Pur essendo indubitabilmente un filosofo, ti dava sempre la sensazione che il suo principale “Problema” fosse risolvere i problemi, più che non costruire un orizzonte omnicomprensivo.
R: ci sono due tempi del lavoro di Salvatore come filosofo. C’è un tempo lungo, che inizia dalle primissime cose che fa, a partire dalla sua tesi di laurea con Paci e Geymonat e dal suo primo libro sulla modalità in Kant. Questo è il percorso di un filosofo teorico, che è interessato in maniera principale al tema della possibilità, che lui affronta in una prima fase dal punto di vista delle categorie kantiane, degli studi di logica che in quegli anni erano particolarmente vivaci sul tema delle logiche modali, sul tema della possibilità. Poi declina tutto questo attraverso la filosofia politica: del resto, se tutto fosse necessitato, non ci sarebbe spazio né per la politica né per la filosofia politica. Non è un caso che in questi ultimi anni, in cui si sta affermando l’idea della tecnica che sostituisce la politica e che le impone scelte “necessitate” in ogni campo, la riflessione filosofica sia particolarmente sofferente, sui temi della politica.
Questo tema del lavoro di Salvatore riemerge negli anni Novanta. Libri molto ambiziosi sui temi dell’incertezza, dell’incompletezza, le riflessioni sui temi della possibilità, il tutto in una prospettiva che tiene insieme la filosofia teoretica e quella pratica. E questo è un filo rosso del pensiero di Salvatore. Poi c’è il percorso di un intellettuale nato nel 1943, che quindi è cresciuto con la Repubblica italiana, vivendo con lei le stagioni più vivaci e più drammatiche. Una persona per cui l’impegno era una seconda natura, ovviamente insopprimibile. In questa prospettiva si capisce bene il tratto di Salvatore cui accennavi tu: un filosofo con lo sguardo sempre attento alla soluzione dei problemi della vita e della società. È sicuramente in questo quadro che si inseriscono molte delle sue opere che possiamo considerare di mediazione, quelle in cui fa conoscere Rawls e un certo modo di fare filosofia pubblica in Italia, ma anche tutti i suoi scritti con cui partecipa al dibattito pubblico e diventa una delle voci più originali della sinistra italiana. In Salvatore dunque convivono davvero due anime, e questo è uno degli aspetti più intriganti del suo percorso: quella teoretica, propria di chi ha fatto pubblicare e dato spazio a Hilary Putnam, Nelson Goodman, o il libro di Marco Santambrogio su “forma e oggetto”, e quella del pensatore pubblico che si immergeva nel fiume della politica, nuotando in acque turbolente, finendo per subire una sorta di processo da parte della sinistra più ortodossa per aver difeso Rawls, o finendo nel magma ribollente del dibattito della Bolognina.
D: Ecco, citi un passaggio chiave del “filosofo pubblico Veca”. Con lo sguardo di oggi si potrebbe pensare che il superamento di quella storia sia stato naturale, e il ruolo degli intellettuali fosse solo quello di accompagnare l’inevitabile. Ma non fu così.
R: Assolutamente no, anzi. Le assemblee nelle sezioni del Pci, quelle rappresentate per esempio ne La Cosa di Moretti, dicevano bene lo sconcerto, lo sconforto di molti militanti. Non era affatto “finita la storia”, non era pacifica quella transizione e quella cesura definitiva col passato comunista. Anche perché, il vissuto e il pensato di milioni di comunisti italiani erano quelli di chi si sentiva emancipato da Mosca, e di chi si percepiva da sempre riformista, e quindi in molti non capivano l’esigenza. L’operazione politica culturale che il PCI fece, ispirato da alcuni scritti di Salvatore Veca e Michele Salvati, serviva però a superare blocchi culturali essenziali rispetto a molte tematiche fondamentali, e questo poteva avvenire solo attraverso un’operazione profonda e coraggiosa come quella che poi Occhetto realizzò, ovviamente senza applicare alla lettera quello che scrissero Salvatore e Michele. Ma senza le loro parole quel processo non sarebbe mai partito.
D: A proposito di cose che non erano “necessitate”, Veca è anche tra i teorici che contribuiscono alla nascita del Partito Democratico. Se non veniva percepito come “necessario” il passaggio che portò alla nascita del Pds, ancora meno doveroso fu questo passaggio, non trovi?
R: Quando avvenne, però, sembrava lo sviluppo naturale e doveroso di un percorso. Se risaliamo la storia e torniamo alla Bolognina, il primo bivio infatti era quello che o portava alla Socialdemocrazia o faceva nascere un Partito di Sinistra che si pensava plurale e oltre la socialdemocrazia. Si scelse per ragioni peculiari italiane di percorrere questa seconda strada, costruendo un partito che doveva accogliere dentro di sé molte culture distinte: quelle ambientaliste, quelle nate dalle battaglie per i diritti civili, quelle del liberalismo di sinistra care a Salvati e Veca. Una volta scelta questa strada, il Pd era uno sbocco tutto sommato naturale. In retrospettiva possiamo dire che le cose non sono andate benissimo, ma di certo non è colpa di Salvatore o di Michele!
D: Di cosa si occupava Salvatore Veca negli ultimi tempi, di cosa ti parlava?
R: Parlavamo moltissimo di due cose, oltre alle “cose da fare”. Perché bisogna dire una cosa: ogni telefonata, chiacchierata davanti a un caffè, scambio di mail con Salvatore, si concludeva indefettibilmente con un mandato condiviso sul “da farsi”. Mi colpisce in particolare il ricordo di una conversazione di poco più di un anno fa, aveva una voce stanca, si sentiva che era sofferente, eppure la nostra fu una lunga conversazione su cose da fare.
Tornando al tema della domanda, c’erano due cose che gli stavano molto a cuore. Una me la disse in un’intervista che mi concesse per il Mulino, quando parlò di “grande ammontare di sofferenza sociale generato in vari angoli di globo dal grande ciclo politico e poi ciclo economico finanziario neoliberale della globalizzazione”. Infatti, proprio negli ultimi anni, Salvatore era diventato un’importante voce critica della cultura liberale e riformista italiana. Una voce purtroppo non ascoltata.
D: L’ultimo Veca in effetti era molto “radicale”.
R: Ma vedi, Rawls era un radicale, sono alcune letture sbagliate, soprattutto italiane, che ne hanno fatto un santino quietista che dice che va tutto bene, ma questo discende da interpretazioni errate della sua teoria dell’eguaglianza e del principio di differenza. La sua radicalità critica è invece facilmente riscontrabile, ad esempio, in alcuni scritti molto espliciti come la corrispondenza con Philippe Van Parijs. Non direi quindi che Salvatore Veca si era spostato a sinistra. Lui aveva proseguito con coerenza il suo percorso di ricerca: ma era il mondo, in particolare il suo mondo, che si era spostato troppo a destra. Il libretto su “non c’è alternativa”, ma anche “qualcosa di sinistra” è una ferma e articolata presa di posizione contro una deriva della cultura liberale.
La seconda cosa di cui parlavamo tantissimo era un suo grande cruccio: non vedeva una nuova generazioni di filosofi della politica e di studiosi di etica pubblica partecipare al dibattito pubblico. Perché, del resto, gran parte del suo lavoro era stato orientato al far dialogare la filosofia con le scienze sociali, a spingere la filosofia ad esporsi con idee chiare e comprensibili per contaminare davvero la storia, evitando di inseguire l’oscurità delle parole per “elevarsi”. Pensiamo a Bernard Williams, che era un grande filosofo ma anche un intellettuale pubblico, che Salvatore riteneva il “più grande saggista della seconda metà del Novecento”. Peraltro, c’è una storia poco conosciuta dal pubblico italiano. Tanti studiosi e studiose tra i 35 e i 45 anni, colleghi e colleghe che sono stati accademicamente “figli e nipoti” di Veca, partecipano al dibattito internazionale, alcuni insegnano all’estero. Ma a lui dispiaceva che nel dibattito pubblico italiano di queste “nuove intelligenze” ci fossero poche tracce. Anche qui: non credo che sia colpa di Veca, ma di come funziona il dibattito pubblico italiano.
D: Anche Veca per molti anni è silente e ignorato.
R: Lui non seguiva le mode, lo dicevamo già prima. Il Veca teoretico, gli studi su Marx, e la scoperta della filosofia analitica. Una logica interna molto coerente, che ritrovi simile in intellettuali di altri paesi. Salvatore stesso diceva che il suo percorso somigliava a quello di G. A. Cohen, professore di filosofia politica a Oxford, padre del marxismo analitico. Sono autori che a metà degli anni Ottanta cercano di riformulare alcune delle tesi di Marx dentro a un apparato concettuale che non avesse le debolezze filosofiche e teoretiche di Marx. Tutti loro sono alla fine approdati alla Teoria della Giustizia, sono diventati “l’ala sinistra” del dibattito su Rawls. Un percorso del tutto simile a quello di Veca. Le mode poi sono cambiate, ma Salvatore era dov’era approdato, a difendere una posizione che aveva delle ottime ragioni.
D: L’ultima volta che ci siamo visti, tutti e tre insieme, era proprio sul palco della Fondazione Feltrinelli, a presentare il suo Senso della Possibilità, un libro del 2018 che ruota proprio attorno all’idea che le alternative esistono nella storia, e il loro confine – se c’è la volontà politica – è solo il mondo. Discutemmo, in quel 20 marzo che cadeva subito dopo il trionfo populista delle elezioni politiche, del fatto che a volte sembra gli unici che impugnano la bandiera delle “alternative” non stanno sul fronte progressista, anzi.
R: Veca era un uomo di mondo, nel senso migliore del termine. Stava a Milano, ma aveva la testa nel mondo. Lui sapeva benissimo che non è vero che non c’è alternativa. A dire il vero penso che lo sappiano quasi tutti, anche se fanno finta di non saperlo… Comunque, dopo il 2008 – a dire il vero anche prima, visto che le prime critiche solide alle derive del capitalismo sono ben precedenti – nessuno può schivare un grande dibattito sui modelli alternativi che avviene, quasi ogni giorno, sul Financial Times, non nei templi della decrescita felice che i nostri “riformisti” agitano come spauracchio. John Gray – peraltro un filofo politico allievo di un liberale come Isaiah Berlin – o Stiglitz sono stati tra i più attenti e precoci interpreti di questa prima fase critica.
Dopo il Covid e le sue conseguenze, poi, quello che era già evidente prima della crisi di Lehman e vieppiù dopo, è ormai un’emergenza continua nel dibattito pubblico internazionale. La crisi dei modelli liberali e l’insufficienza del capitalismo classico ormai sono sulle prime pagine di tutti i giornali di riferimento del capitalismo mondiale. Non si capisce, a questo proposito, cos’abbiano in testa i liberal italiani. Forse certe analisi carenti della realtà sono frutto di frequentazioni sociali monodimensionali, solo persone che stanno bene, e di poche letture, troppo selettive. Se frequenti solo upper class e leggi solo gli editoriali del Foglio può capitare che ti perdi qualche pezzo. Salvatore aveva chiaro invece che esiste un problema, e che nel dibattito intellettuale internazionale ci sono gli strumenti per affrontarlo. Purtroppo in Italia, anche a sinistra, ci si lamenta della cancel culture, ma poi si tenta di cancellare la giustizia sociale dal dibattito. E questo rischia di essere letale, non solo per la sinistra, ma per la società nel suo complesso”.
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