Partiti e politici
Poca gente e poca emozione: Piazza Duomo dice che l’Italia è già dopo Silvio
Per molti anni mi sono immaginato come sarebbe stato il funerale di Berlusconi. Per chi come me ha iniziato a scrivere sui giornali una ventina d’anni fa, è cresciuto drogato di politica, è nato nel 1978 ed è – last, but decisamente not least – milanista, sarebbe stato per forza di cose un appuntamento generazionale, professionale, simbolico con la storia del tempo che mi aveva formato. Per molti anni l’ho dunque immaginato – sbagliando – come un fatto fuori dal tempo. Come un evento che avrebbe riportato in vita, in qualunque momento e contesto fosse avvenuto, tutta la forza sociale e la popolarità e l’amore e l’odio e la venerazione e il disprezzo che per decenni gli avevano dedicato decine di milioni di italiani. Che avrebbero quindi riempito Piazza Duomo fino a Piazza Cordusio, fino Piazza Diaz, magari fino a Piazza San Babila. Una giornata di quelle nelle quali le masse fanno quello che dicono i sociologi, si accalcano, piangono, fanno ressa e casino, rischiano di farsi male: e a nulla sarebbero valse le capacità dissuasive degli agenti atmosferici o di quelle in divisa. Quanto mi sbagliavo l’ho visto coi miei occhi, oggi pomeriggio, in Piazza del Duomo, a Milano.
Arrivato con grande calma, e avendo sentito qualche notizia allarmata sulla chiusura delle transenne per il raggiunto limite di posti – inizialmente fissato a 8 mila persone, non proprio un’adunata oceanica – avevo assecondato il mio immaginario di partenza e creduto che già in Piazza della Scala, cioè dal capo opposto della Galleria che parte da Piazza Duomo, sarebbe stato difficile camminare. Un po’ di movimento in effetti c’era, ma tutto fatto di turisti stranieri intenti a farsi selfie o a mangiare i loro gelati prima che glieli mangiasse l’afa. La galleria è quella di un giorno di estate: turisti, gente che fa shopping, i tavoli dei caffè mediamente affollati. Si cammina larghi. E larghi si arriva, camminando, fino a piazza del Duomo. I partecipanti alle esequie che non sono entrati nella Cattedrale sono contingentati nella parte centrale della Piazza. Col taglio fotografico giusto sembrano tantissimi. Ma se si allarga il campo si capisce che così tanti non sono. Ai due lati della piazza si cammina larghi. Quando l’arcivescovo Mario Delpini inizia la messa, davanti ai maxischermi laterali, immaginati proprio pensando a una piazza gremita, non c’è praticamente nessuno.
Le voci sono distratte, gli sguardi emozionati o anche solo partecipi rarissimi. Si incontrano facilmente amici, conoscenti, molti colleghi. A nutrire le fila della piazza, l’unico gruppo davvero caldo, riconoscibile e riconoscente davvero, è quello che che si definisce attorno alle bandiere rossonere. Niente berlusconiani scalmanati, niente anziane in lacrime per Silvio. E, cosa che forse mi ha sorpreso ancora di più, niente antiberlusconiani professionali presenti a urlare la loro indignazione e la loro rabbia, o il loro cinico sollievo. Quasi niente, in verità, perchè uno c’era: con la sua maglietta “io non sono in lutto” e il suo striscione. È stato coperto da un coro “scemo scemo scemo” a messa iniziata, e portato via da un codazzo imponente di poliziotti inseguito da un ancora più nutrito codazzo di fotografi. Una scena fantozziana: un vecchio signore evidentemente poco presente al presente, e manifestamente non pericoloso, scortato da forze dell’ordine e professionisti dell’informazione come fosse Matteo Messina Denaro il giorno dell’arresto.
Passeggiando in Piazza Duomo, durante i funerali di Silvio Berlusconi, ho così assecondato la memoria che mi portava in altre piazze, quando ancora c’era Lui vivo. Per assonanza, per ricorrenza tonda, più di tutte ho ripensato a una piazza romana, sotto casa sua. Era l’agosto del 2013, esattamente dieci anni fa, e quella piazza era convocata a sostegno dell’ex premier e allora senatore, appena condannato in Cassazione – e quindi con sentenza definitiva e applicabile – in un processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. In seguito a quella sentenza si aprì l’iter parlamentare che, in base alla legge Severino e al voto del Senato, porterà Berlusconi a decadere dalla carica, appunto, di Senatore. Berlusconì chiamo il suo popolo, e quel popolo – già più piccolo e infragilito, rispetto al passato – tuttavia rispose. Arrivarono un centinaio di pullman da mezza Italia. Alcuni video divennero famosi, come quella della signora che, senza contenere le lacrime, cantava a squarciagola “Menomale che Silvio c’è”.
Un popolo già anziano, l’ultimo lembo di una storia di trionfi, e che però era ancora vivo e chiedeva ancora lunga vita e agibilità politica per il suo patriarca. In dieci anni – lo dicono i risultati elettorali che hanno visto passare quella Forza Italia da oltre il 20% all’8% di qualche mese fa – di quel popolo è rimasto poco. Un po’ perchè la biologia riguarda tutti, e non solo il fondatore. Un po’ perchè del gigantesco ritratto d’italianità che lui ha incarnato per decenni, al presente, è rimasto poco, sempre meno. È vero: l’Italia gli somiglia ancora molto, ma ne è meno cosciente, gli interessa meno specchiarsi in lui, e non da oggi che è morto, ma da un tempo ormai lungo e sedimentato. Un po’, infine, forse, perchè il tempo dei grandi leader che durano nel ricordo delle masse oltre la vita è finito: ed è finito perfino per chi di quel carisma ha fatto il fondamento del più grande successo di un politico nella storia italiana.
Per tutte queste ragioni, fa particolarmente impressione vedere giornali e trasmissioni grondare – e chissà per quanto ancora gronderanno – Silvio da ogni angolo. Sicuramente farà audience, non discuto: ma ci sarà, e molto, anche la pigrizia o la nostalgia di chi l’ha marcato a uomo per decenni, e non si rassegna a lasciare andare quel pezzo imponente di noi, della nostra vita e del nostro lavoro, che con lui se ne va. Ma non biasimerò troppo i colleghi. Dopotutto, sono andato in Piazza del Duomo pensando di non riuscire nemmeno a camminare. Ho commesso, in definitiva, lo stesso errore che facciamo tutti da anni: crederlo immortale. Invece anche Silvio era solo uno come noi.
(fotografie di Francesca Mandelli)
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