Partiti e politici
Le Tre Italie (e il PD)
Alla fine degli anni ’70 Arnaldo Bagnasco, uno dei più autorevoli sociologi italiani, propose, all’interno del dibattito sullo sviluppo economico, sociale e territoriale italiano, l’introduzione del concetto di “Terza Italia”, identificando con questa definizione una tipicità di sviluppo delle regioni del Triveneto e del Centro, distinta da quella del Nord-Ovest (o meglio, del triangolo industriale Milano – Torino – Genova) e del Sud e superando, o rendendo più complessa, la lettura dello sviluppo italiano, storicamente legata alla dicotomia Nord – Sud (A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1977). Bagnasco faceva risalire questa tipicità di sviluppo, caratterizzata da una piccola impresa non subordinata alla grande industria, ad alcune caratteristiche storiche di queste regioni, in particolare alla mezzadria e alla piccola proprietà agricola, e sottolineava anche il carattere di omogeneità politica che questo tipo di sviluppo aveva supportato, cioè l’egemonia storica dei due maggiori partiti del dopoguerra italiano: la Democrazia Cristiana nel Triveneto e il Partito Comunista Italiano nel Centro.
A 40 anni di distanza da questa proposta, e sull’onda dei risultati delle recenti elezioni e del dibattito che ne è seguito, è interessante capire se questo schema, che è già stato intaccato politicamente dalla fine della “prima repubblica” e dal sorgere di movimenti politici che almeno in una di queste parti di paese hanno sostituito l’antica egemonia con una nuova (ci riferiamo in primo luogo alla Lega, ormai da tempo stabilmente maggioritaria nel Triveneto, e al Movimento 5 Stelle, che sembra aver attecchito in parte anche in alcune regioni del Centro, in particolare nelle Marche), regge ancora ed è utile a comprendere qualche linea evolutiva del nostro Paese e delle sue tendenze politiche, o invece è completamente da abbandonare a favore di qualche altro schema di lettura.
Il mio parere è che oggi ci troviamo ancora di fronte a “Tre Italie”, ma che sono tre Italie dai confini diversi da quelle allora delineate da Bagnasco. Il panorama attuale sembra infatti mostrarci che in Italia esiste ancora una grande divisione Nord – Sud, in cui il Nord è mediamente più omogeneo tra ovest ed est di quanto non fosse una volta (per la sparizione delle grandi industrie che caratterizzavano il triangolo industriale e lo differenziavano dal resto dell’area settentrionale) e che lo avvicinano di più al Centro per la forte presenza di una piccola e media industria legata alla divisione internazionale del lavoro che assegna all’Italia il primato in alcuni comparti industriali di forte esportazione (es. meccanica strumentale), mentre il Sud continua sostanzialmente a caratterizzarsi per una difficoltà di sviluppo economico e sociale che lo pone ancora tra le zone meno sviluppate dell’Europa (gli indicatori economici e sociali lo mettono alla pari con altre zone del Sud Europa come la Grecia e il Portogallo).
Fin qui sembrerebbe che si sia tornati al dualismo tra Nord e Sud che per così tanto tempo ha caratterizzato il nostro Paese. In realtà, negli ultimi anni un altro fenomeno è emerso chiaramente, quello dell’ inesorabile staccarsi dell’unica vera Metropoli italiana, cioè Milano, dal resto d’Italia. E’ un fenomeno che, come sappiamo, ha avuto la sua sanzione simbolica con l’Expo e il suo successo internazionale, ma che corrisponde in effetti ad una linea di sviluppo dell’area metropolitana milanese che sembra inserirsi stabilmente in quella nuova geografia mondiale delle metropoli che fanno “storia a sé” dal resto dei loro paesi e che sembrano caratterizzare l’attuale fase di sviluppo del capitalismo, nel quale nascono “reti” di metropoli caratterizzate da ambienti particolarmente favorevoli all’innovazione tecnologica e dei servizi per il contestuale aggregarsi di fattori diversi e sinergicamente agenti: offerta di alta istruzione, addensarsi di aziende multinazionali dei settori high tech, crescita demografica in controtendenza rispetto all’ambiente nazionale circostante, buoni servizi pubblici in termini di welfare, crescita di una classe media agiata che altrove è invece lo strato sociale più violentemente toccato dalla crisi economica iniziata nel 2008.
La Grande Metropoli è anche caratterizzata, in molti paesi, da comportamenti elettorali e politici – e da una classe politica – difformi e contrari a quelli del “resto” dei loro paesi: basti pensare ai risultati del referendum sulla Brexit a Londra rispetto al resto della Gran Bretagna o a quelli di Milano in tutte le ultime occasioni di voto italiane (da referendum del 4 dicembre alle recenti elezioni politiche nazionali e a quelle regionali), per non parlare dei Sindaci che queste metropoli esprimono (Khan a Londra, Hidalgo a Parigi, Sala a Milano, per fare tre esempi), tutti espressione di politiche di apertura internazionale molto spesso in contrasto con quanto avviene a livello nazionale nei rispettivi paesi.
Se questo quadro ha qualche corrispondenza con processi non contingenti, quello che ne viene fuori è una linea di sviluppo che sembra portare ad una differenziazione sempre maggiore – o comunque non facilmente sanabile – tra processi nazionali e processi metropolitani. Le Grandi Metropoli, intese non come singole città ma come territori più ampi (che a volte superano anche gli stretti confini amministrativi regionali) appaiono – ed effettivamente sono – “protagoniste” dello sviluppo e le popolazioni ivi residenti le vivono e si vivono come tali (basta aver frequentato Milano negli ultimi anni per capire di cosa stiamo parlando), mentre le altre zone delle nazioni arrancano o manifestano evidenti fenomeni di sfiducia se non rifiuto esplicito dei processi di globalizzazione che sentono come minacciosi. Da un certo punto di vista anche le recenti vicende catalane potrebbero essere lette sotto questa chiave interpretativa.
I recenti risultati elettorali italiani fotografano plasticamente questa situazione e rendono conto di una possibile alleanza governativa – quella tra Lega e M5S – che, al di là delle più o meno grandi distanze programmatiche, ha la sua forza nella costruzione di una “coalizione degli insoddisfatti”, di coloro che per diverse ragioni anche non identiche si ritengono, a torto o a ragione, dalla parte dei “perdenti”, di coloro che sono esclusi dalle grandi correnti dei processi di sviluppo globale. E’ una coalizione che trova le sue ragioni di compattezza al di fuori dello stretto perimetro del sistema politico e che anzi sembra portare al di dentro di questo la forza e la vera e propria prepotenza delle dinamiche sociali: è come se un popolo che si sente escluso abbia usato ed usi gli strumenti che trova a sua disposizione (l’offerta politica dei movimenti “anti-sistema”) per lanciare un grido di disperazione, connotato più da ciò che questa fascia di elettori sente come una “comunità di destino” negativa che da una proposta politica positiva. E’ per questo che in fondo Salvini e Di Maio possono parlarsi senza suscitare polemiche all’interno dei loro rispettivi campi e ed elettori: perché sono stati votati non in quanto rappresentanti di un’idea, di un progetto, ma in quanto espressione di un disagio e di un grido di dolore e di protesta.
In tutto questo, il PD.
Il PD è uscito da queste elezioni come il partito dei ceti socialmente ed economicamente vincenti, il partito di quelle classi medie innovative che si inseriscono attivamente nei processi di globalizzazione, ma che costituiscono, al momento attuale, una minoranza nel panorama sociale italiano. Una minoranza sociale e geografica, “confinata” nelle zone centrali della Grande Metropoli e in generale dei centri urbani, come si è visto dalla distribuzione territoriale dei voti (il PD mantiene anche una quota di voto tradizionale al Centro, ma la tendenza è decisamente negativa).
Questa situazione richiede innanzi tutto una decisa presa d’atto: essere consapevoli di questo radicamento e di questo stato di minoranza è il primo indispensabile passo per poter immaginare come uscirne e diventare di nuovo una forza che è in grado di parlare alla maggioranza degli italiani (obiettivo che stava alla nascita del PD). La risposta va cercata probabilmente su un doppio piano, un piano politico ed un piano organizzativo. Se sul primo piano sono d’accordo con Francesco Nicodemo quando dice, in un suo post su Facebook del 22 marzo, che un eventuale progetto di En Marche italiano non ha lo spazio politico necessario per essere maggioritario perché già sostanzialmente occupato dal M5S – oltre che, per quanto detto prima, potenzialmente confinato ai limiti attuali dell’insediamento elettorale del PD (e di quello, altrettanto tendenzialmente negativo, di una parte di Forza Italia) –, è sul piano organizzativo che secondo me andrebbe condotta in questo momento una seria riflessione conseguente ad un’analisi dei risultati elettorali e delle tendenze socio-territoriali che ho cercato di illustrare sinteticamente. Infatti, se queste sono effettivamente le cose che stanno succedendo, la domanda vera è se sia ancora possibile pensare ad un unico PD nazionale. La mia risposta è no, io credo che la situazione attuale chieda una così forte operazione di ri-radicamento dentro i processi sociali territoriali tale da rendere urgente ed indispensabile una svolta neo-federalistica della forma-partito, di un partito che si organizzi localmente a partire da una rinnovata rete di circoli che siano capaci di dialogare e lavorare insieme a soggetti collettivi diversi dal partito ma fortemente radicati nei territori (associazioni, gruppi locali informali, ecc.) attraverso “patti d’azione” anche limitati nel tempo e nello spazio, che poi si aggreghino a livello macro regionale (per esempio seguendo le tre grandi ripartizioni di cui ho sopra parlato: il Nord, il Sud e la Metropoli milanese) per poi infine federarsi a livello nazionale o in occasione di competizioni elettorali nazionali, similmente a quanto avviene tra CSU e CDU in Germania.
Forse in passato abbiamo sprecato un’occasione, quella della “stagione di Sindaci” (da Cacciari e Rutelli per arrivare a Chiamparino) per far partire intorno a quelle esperienze un ragionamento e un cambiamento anche dell’assetto organizzativo del partito. Adesso non possiamo permetterci di ritardare oltre: Roma sta ancora dimostrando, purtroppo, di essere capace di fagocitare qualsiasi esperienza (in positivo) e qualsiasi débacle (in negativo), riproducendo divisioni e schieramenti che hanno a che fare con logiche interne indipendenti ed autonome dai processi di aggregazione politica e di ricerca di senso delle persone (si sente già parlare di iniziative di singoli esponenti a livello nazionale, per dire…). C’è invece bisogno di un partito capace di ascoltare, leggere, rappresentare ed elaborare politicamente processi locali che si differenziano notevolmente a livello sociale ma anche politico, come temo si vedrà ancor meglio alle prossime elezioni regionali, e che sia capace di costruire, prima ancora di proposte di governo (che è evidentemente l’obiettivo a cui arrivare), competenze di organizzazione e attivazione di tutte le energie e le risorse che, ne sono sicuro, esistono nella società e vicino a noi. Si tratta di sollecitarle, di riconoscere loro spazio e possibilità di interlocuzione, senza avere fretta di “reclutarle” e “arruolarle”. Facendosi magari, invece, aiutare da loro a capire come e cosa cambiare. E cercando di non percorrere scorciatoie politiche ed organizzative che in questo momento non hanno senso: verrà il tempo di decidere se mantenere o no le primarie, se il segretario debba ancora essere il candidato Presidente del Consiglio o no, ecc., ma queste sono tutte questioni che vengono “dopo”. Dopo aver capito – o perlomeno, tentato di capire – dove siamo (anche, per dirne un’altra, all’interno di che sistema politico siamo, con la fine ormai acclarata della “seconda repubblica” e dopo il referendum del 4 dicembre) e dove vogliamo andare. Altrimenti temo che il fiato corto della politica del giorno per giorno ridurrà il PD, lentamente ma inesorabilmente, ad un piccolo club elitario.
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