Ulisse, Saltatempo, Charles e il «Modello Padova»
Per alcuni si può chiamare «Modello Padova» e vale per l’Italia tutta, per altri è un autentico «capolavoro politico» che merita l’uso di «toni epici». Comunque […]
Dieci milioni di italiani alle elezioni comunali non sono 40 milioni di italiani alle elezioni politiche. Ma i quasi dieci milioni di italiani che erano chiamati al voto ieri non sono un dettaglio, un caso marginale, un accidente qualsiasi. Sono i cittadini di Palermo, di Genova, di Taranto, di Verona, di Parma, di Sesto San Giovanni, e di altri 840 comuni italiani. Sono un pezzo importante del nostro paese, e dell’espressione di democrazia rappresentativa del nostro paese. Lo sono nel contesto delle elezioni comunali dove, tutto sommato, votare i simboli astratti della lotta alla casta, o della lotta al populismo, o della propria idea di appartenenza, è un po’ meno facile senza confrontarsi direttamente con una faccia, una voce, una credibilità. Nell’Italia dei cento campanili, dei localismi plurisecolari, nel paese in cui ci si conosce tutti anche fuori dal castello natìo, le elezioni comunali sono da sempre – e da quando c’è l’elezione diretta del sindaco molto di più – un test di credibilità diretta del candidato sindaco non meno che un una misura di consenso di partiti e movimenti.
I primi risultati che arrivano dalle varie città e dai territori interessati dal voto ci dicono diverse cose che dobbiamo annotare e ricordare. Il Movimento 5 Stelle, dopo gli exploit dello scorso anno in cui conquistò la capitale Roma e l’antica capitale Torino, insegue, arranca, e non va al ballottaggio in nessuna principale città. Colpa dei cattivi risultati amministrativi e mediatici delle giunte Raggi (soprattutto) e Appendino (più recentemente)? Colpa dei singoli candidati in giro per l’Italia? Colpa di un calo di consenso più ampio che impatta anche al livello delle elezioni comunali? Vedremo. Il dato di fatto resta oggettivo. Anche se enfatizzarlo non sarebbe corretto trascurando che, appena un anno fa, i grossi successi di Roma e Torino furono – per paradosso – eccezioni in un panorama di insuccessi a 5 stelle, ovviamente e giustamente nascosti, nella narrazione mediatica, dalle roboanti affermazioni in due importantissime città italiani e internazionali.
Il fatto stesso che i primi commenti di tutti siano rivolti al movimento fondato da Beppe Grillo, peraltro, conferma l’attenzione, l’insofferenza e la paura che i due oligopolisti del vecchio bipolarismo italiano – centrodestra e centrosinistra – nutrono nei confronti del Movimento. Una sua sconfitta, anche in una tappa intermedia non decisiva, come questa, serve a sventolare bandiere trionfanti da ambo i lati. Bandiere da tifosi, o da membri interessati di un establishment, che però trascurano il dato di fondo. Il Movimento 5 Stelle che soffre sul territorio, quando deve trovare candidati credibili e programmi realistici e concreti, da presentare lungo le strade in cui il radicamento qualcosa ancora conta, è lo stesso movimento che, a livello nazionale, ancora catalizza la rabbia e il disprezzo per il ceto politico dei “vecchi partiti”. Credere semplicisticamente che questo voto è l’inizio della fine sarebbe come dimenticare che la batosta alle Europee del 2014, per il movimento di Grillo, è successo prima di espugnare Roma e Torino nel 2016. Giusto per fare un esempio.
Per il resto, lo schema tripolare è comunque, sostanzialmente, confermato. Dove non arrivano ai ballottaggi, i 5 stelle sono comunque quasi sempre la terza forza. La cosa interessante è che, in diversi contesti, il tripolarismo rende imprevedibile l’esito dei ballottaggi ma restituisce con chiarezza un dato: il vecchio schema del centrodestra berlusconiano è vivo, vegeto e solido. Dove non arriva primo, arriva secondo e porta il suo candidato al ballottaggio nelle migliori condizioni per giocarsela. Il risultato di Genova, storica roccaforte rossa in cuiMarco Bucci, candidato del centrodestra unito, arriva al secondo turno con tutte le carte in regola per provare a vincere, è solo la punta dell’iceberg di un quadro generale in cui i candidati del centrodestra si difendono bene o molto bene. Un dato su cui varrà la pena di riflettere a proposito di resistenza dei modelli politici, e di capacità di scalfire davvero, concretamente, quanto ereditato dall’ultimo scampolo di Novecento.
Infine, guardando dall’alto e senza avere ancora dati attendibili sulla maggioranza dei comuni, un pensiero va alla Parma di federico Pizzarotti. Che arriva al ballottaggio da favorito, scaricato dal Movimento Cinque Stelle e avversato comunque da centrodestra e Centrosinistra. Eppure, appunto, favorito. La sua parabola sembra quella di chi, arrivato a guidare la sua città in nome della buona amministrazione, dell’onestà e del buongoverno, del buonsenso del cittadino contro il mondo a parte dei partiti, conserva, nonostante diversi anni di governo, l’allure di quando aveva iniziato. Conserva la fiducia dei cittadini a prescindere dal Movimento che lo ha inizialmente sostenuto. Quasi che le promesse e le premesse del Movimento 5 Stelle, la lotta ai partiti e all’establishment, a certe condizioni, siano meglio incarnate da chi dal Movimento è stato rigettato che non dal movimento stesso. Un caso isolato o un’immagine che prefigura il futuro? Una traccia in più da seguire con attenzione, questo è certo.
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