Partiti e politici
Ditele fascista, ma sul ritorno alla democrazia Meloni mette il dito nella piaga
C’è un problema grosso come una casa o, quantomeno, ingombrante come una mucca in corridoio. In una campagna elettorale che stenta a decollare, mentre faticano a prendere forma le liste e buona parte dei partiti sembrano impegnati principalmente a tamponare ansie, appetiti e frustrazioni dei loro potenziali candidati, possiamo intanto osservare un dato generale di non poco conto. Ancora una volta, il fronte politico di centro-sinistra – anzi, questa volta dovremmo dire: di centro E di sinistra – si trova a rivendicare il lavoro fatto governando, e avendo governato grazie ad alchimie parlamentaeri improbabili o del tutto inimmaginabili prima e dopo le ultime elezioni politiche. In sintesi: avendo governato in contesti di alleanze esplicitamente escluse quando si trattava di chiedere il voto, o del tutto innaturali a patto di ammettere che i governi di unità nazionali sono appunto contro natura. Allo stesso tempo, ancora una volta, la destra italiana, soprattutto nella sua componente più identitaria che è rimasta all’opposizione per tutto il quinquennio e per questo farà il pieno di voti, rivendica che finalmente gli italiani potranno tornare a esprimersi e a decidere le sorti politiche e governative del proprio paese.
Se questa è la fotografia generale, presa dall’alto, poi ci sono i dettagli. Da sinistra a destra, quasi nessuno è puro, in verità. I 5 Stelle, che in nome della purezza da restituire hanno iniziato ad esistere, finiscono una legislatura comicamente tragica: anche il miglior microscopio faticherebbe a trovare tracce di purezza in un Movimento antisistema che è riuscito a diventare il perno numerico di ogni governo (con la destra, con la sinistra, con tutti tra Meloni). Tanta confidenza coi giochi di palazzo non è bastato a evitare di intestarsi la caduta del governo Draghi che – dovrebbe ormai essere evidente – era egualmente agognata da diversi altri partner. Il Pd ha iniziato la legislatura con un segretario uscito sconfitto dalle urne, promettendo che non avrebbe mai governato coi populisti. Poi ha governato coi populisti a 5 Stelle e con lo stesso premier che aveva appena firmato i decreti Salvini, e lo ha fatto per l’abile iniziativa politica presa da quel politico che ormai era ex segretario, che poco dopo aver fatto nascere il Conte 2 lasciò il suo partito per fondarne un altro. La Lega salviniana, dopo aver fatto un governo coi 5 Stelle ed essere fuggito all’opposizione nell’estate del Papeete (e di Savoini), è tornata in maggioranza con l’uomo che ha salvato l’odiatissimo euro. Forza Italia, nel complesso, può difendersi: con quegli “scappati di casa dei 5 Stelle” (cit. Berlusconi) non ha mai governato, se non sotto l’egida di Mario Draghi, troppo alta per non essere rivendicata come propria. L’unica che però può rivendicare con coerenza una posizione, e può rinfacciare davvero a tutti le loro incoerenze e le mille promesse rimangiate, è Giorgia Meloni.
Ed è anche l’unica, va detto, che può rivendicare questo obbligato ritorno al voto come un successo, nella speranza che non sia ancora una volta vanificato dalle alchimie del palazzo e dalla inettitudine della classe dirigente che lo popolerà. Perchè è vero che siamo una repubblica parlamentare ed è in parlamento che si decide come si governa; ed è altrettanto vero che la scadenza naturale della legislatura è un obiettivo che la costituzione ritiene fisiologico, mentre è patologica la sua interruzione anticipata. Ma può essere considerato sano un sistema politico che in una legislatura produce quello che abbiamo visto? Può essere considerata una democrazia in salute quella nella quale chi ha promesso una cosa fa il suo contrario e poi si presenta agli elettori senza nemmeno spiegare perchè, anche per aiutare tutti a pesare le prossime parole e le prossime promesse? Una teoria molto in voga vuole che sia decisivo il sistema di incentivi connesso al sistema elettorale e costituzionale. Il proporzionale puro diminuirebbe il tasso di litigiosità e toglierebbe l’alibi delle coalizioni (mah), secondo alcuni; oppure – al contrario – serve un sistema che colleghi direttamente il potere governativo e istituzionale all’esito del voto: ed è la ricetta del presidenzialismo, eterna chimera della destra italiana che oggi è fatta propria da Giorgia Meloni.
Non credendo che il tema principale sia quello delle regole istituzionali, e non credendo affatto che il sistema presidenziale sia una buona idea per il nostro paese, credo però che una riflessione in più sulla proposta di Giorgia Meloni andrebbe fatta. Soprattutto tra le file dei suoi avversari. Perchè questa proposta va avversata politicamente, non eticamente. Bisogna opporsi a un sistema che scardinerebbe alle radici la nostra Costituzione, spingendo un paese umorale, e una società che vive un tempo lunatico e irresponsabile. Ma per farlo non servirà a nulla prefigurare voglia di uomini e donne forti e nostalgie del Ventennio in chi lo propone, cioè Giorgia Meloni. Servirà invece, piuttosto, un po’ di sana (benchè ormai desueta) autocritica: il partito democratico ormai da oltre un decennio pensa solo alleanze, e troppo poco agli elettori. Pensa solo a governare, in qualche modo, e mai abbastanza a come arrivare a farlo. Copre con l’innegabile pressapochismo degli avversari della destra il proprio non esistere, se non sedendo al governo. Qual è il confine, insomma, tra la responsabilità di un partito chiamato a governare ogni volta che “gli altri” rischiano di condurci il disastro, e l’opportunismo di un partito che sembra tifare sempre per il disastro degli altri, per tornare a governare anche senza vincere mai le elezioni?
Mi rendo conto, la domanda è fastidiosa, soprattutto in campagna elettorale. Eppure secondo me è vitale per la politica italiana. Perfino più di quelle che riguardano la sincerità delle abiure pronunciate – sicuramente troppo timidamente e troppo tardi – da Giorgia Meloni.
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