In Europa, nell’Europa governata dalle storiche culture democratiche cristiano-popolari, socialdemocratiche e liberali, è sembrato spirare forte, domenica 9 giugno, un vento di destra. È successo in Francia e in Germania, per fermarci ai due più importanti paesi dell’Unione, quelli senza i quali nessuna Europa avrebbe mai potuto darsi, e questo basta a far tremare i polsi di un progetto politico fondato sul rifiuto radicale dei fascismi. Nei due paesi fondatori, che dopo essersi fatti la guerra per secoli decisero che l’Europa doveva diventare regno di pace, i partiti di estrema destra ottengono infatti ottimi risultati, e in prima analisi questo basta a scuotere le coscienze, ad animare le preoccupazioni. Il crespuscolo di un’esperienza politica straordinaria e anomala come quella di Macron, in un paese che già in passato aveva tributato un terzo di voti all’estrema destra della famiglia Le Pen, non va però confuso con una tendenza continentale tutta da dimostrare. Perchè appena si guarda il quadro nel suo insieme, un insieme fatto dai voti di tutti i paesi, dai quali confluiscono membri nei vari gruppi parlamentari europei, si capisce che, con ogni probabilità, neanche questa volta la destra-destra uscirà dal suo ghetto, e continuerà a non esercitare alcuna influenza reale sul governo d’Europa. Con una sola rilevante eccezione, quella di Giorgia Meloni, che già governa da quasi due anni in un altro paese fondatore.
Già, perchè il voto italiano conserva la propria peculiarità e cristallizza, complessivamente, gli equilibri già rappresentati nel nostro parlamento. Anzitutto, si consolida la tendenza al crescente astensionismo. Dopo alcune prime proiezioni che sembravano in controtendenza, l’affluenza finale si ferma attorno al 50%, confermando una crescente indifferenza dell’Italia – per tutto il secolo scorso uno dei paesi più politicizzati del mondo – agli appuntamenti elettorali. Ma del resto, il voto è di chi ci va, e gli italiani che hanno esercitato il loro diritto restituiscono un fotografia di “continuità rafforzata” alle forze politiche in campo.
Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio, esce infatti forte da queste elezioni. Con un risultato superiore al 28% rafforza la leadership nel paese e nella coalizione. Si vede confermata e consolidata nel consenso, “Giorgia”, dopo quasi due anni di governo, e sono stati due anni difficili per il paese, nei quali ha dovuto fare i conti con una contingenza economica non generosa, con la coda lunga dell’inflazione e delle strette monetarie della Bce, con conti pubblici che – proprio in sede europea – chiedevano di essere sorvegliati con lo sguardo occhiuto di Giorgetti, e non con quello generoso delle promesse elettorali. Non ha strafatto, anzi. Ha fatto meno che poteva. Ha confermato fedeltà prudente agli impegni internazionali, ha sostenuto il patto con Kiev ma temperandolo con le diplomazie di Tajani e le nostalgie putiniane di Salvini, e alla fine gli italiani le hanno detto: “Noi stiamo bene così”. E lei, evidentemente, pure. Il voto di ieri dimostra, tra le varie cose, che le sue preoccupazioni per gli avversari interni alla propria destra erano quantomeno sovradimensionate. La Lega di Salvini, che molto aveva puntato sul Generale Vannacci, finisce dietro alla Forza Italia di Tajani. La quale, al primo appuntamento elettorale nazionale dopo la morte del patriarca Silvio Berlusconi, si trova a crescere, facendo tesoro delle parole d’ordine che il fondatore proclamava e incarnava in maniera decisamente personale: moderatismo, prudenza, multipolarismo internazionale. Nella Lega, poi, si tornerà a parlare della successione a Salvini, per punirlo dei suoi avventurismi e del suo tradimento, sempre più pronunciato, della storia del territorio, del nord, delle radici bossiane. Eppure, a ben guardarlo, pur punito da un anti-leader come Tajani nella competizione interna, questa Lega ottiene un risultato più che dignitoso. Avesse evitato di imbarcare Generali e si fosse tenuto stretto le sue truppe, sarebbe stato probabilmente migliore. Difficilmente questo innescherà un cambiamento al vertice, anche per costante assenza di candidati credibili.
Nel suo complesso, comunque, la coalizione di governo di destra conferma e anzi rafforza la propria egemonia nel quadro politico italiano, ottenendo consensi relativi in crescita, rispetto alle elezioni politiche del 2022.
Contestualmente, fenomeno di crescita analogo lo ottiene il Partito democratico di Elly Schlein, in un contesto – quello delle elezioni europee – tradizionalmente favorevole per il partito. Anche per Schlein la crescita è buona, ma non ottima, tanto più che viene da anni di opposizione, che sicuramente possono aiutare. Peraltro, la somma delle percentuali delle forze del cosiddetto “campo largo’ ovviamente non cresce, visto che a crescere è il centrodestra. Ma certo, per la segretaria del Partito democratico questo risultato, questo 24%, è una bella boccata d’ossigeno: guadagna tempo, dimostra che il suo progetto a certe condizioni ha dei referenti nella società, dice a chi la critica che porsi come alternativa aperta e schietta è una buona idea, e si siede in posizione di forza a qualunque tavolo con Giuseppe Conte. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, come ogni volta che si vota alle Europee, complice la massiccia astensione nel sud, conta circa due terzi dei voti in percentuale che aveva conquistato alle precedenti elezioni politiche. Succede con grande regolarità, più o meno in qualunque condizione, dal 2014 a oggi, ed evidentemente non è una coincidenza. Di certo Schlein, in un voto polarizzato sulle aree urbane e sulla dorsale appenninica tradizionalmente favorevole, è riuscita a qualificarsi come la principale avversaria di Meloni. La qual cosa ha fatto bene al suo partito, pur non avendo arrecato danno alla presidente del Consiglio. Fenomeno analogo spiega anche, sicuramente, l’ottimo risultato di Alleanza Verdi e Sinistra. Anche per quello spazio politico, storicamente, le elezioni europee sono congeniali. Ma un dato ben sopra il 6% era difficilmente immaginabile. Vedremo le preferenze, ma la scelta di schierare frontalmente altrettante bandiere che sventolano in faccia alla destra, e anche al Pd (come Ignazio Marino), probabilmente ha dato i suoi frutti.
Fuori dalla fotografia dei principali schieramenti, al di là degli spazi residuali occupati da Michele Santoro, c’è il rebus psicanalitico del rapporto tra Renzi e Calenda. Insieme avrebbero confermato all’incirca le percentuali delle politiche, portato diversi parlamentari in Europa, e contato qualcosa perfino negli equilibri continentali. La pensano allo stesso modo su tutte le cose importanti, lo dicono anche. Ma vanno separati e così a Strasburgo non ci va nessuno. Al di là del merito e delle scelte, è una bella lezione di politica e di vita, che riguarda loro e, però, non solo loro. Non trovando un compromesso, alla fine, vincono altri.
Chi? Chi, come Giorgia Meloni, riesce a esercitare un’egenomia non straripante. Una vittoria senza trionfi. In un paese che sembra dichiarare di non volere scossoni. Che pensa, anticamente, che tirare a campare sia sempre meglio che tirare le cuoia. E che fare poco possa bastare. Ora è tempo di vacanza. Dopo, semmai, ci penseremo. Basterà? Nel lungo periodo probabilmente no. Nel breve, evidentemente sì. Intanto, davanti, Meloni ha la grande occasione di contare qualcosa in Europa, in un quadro mutato, nel quale il partito Popolare avrà bisogno di incorporare pezzi di nuova destra che hanno già dato prova di responsabilità e governismo. Giorgia Meloni, naturalmente, è la prima della lista.
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