Partiti e politici
Meloni e la schiavitù delle radici: il 25 Aprile impossibile della presidente
Senza lo spettacolare autogol firmato dalla Rai meloniana, il dibattito pubblico attorno a questa festa della Liberazione sarebbe ruotato per lo più lontano dai temi del fascismo e dell’antifascismo. Avremmo parlato quasi solo di Israele e Palestina, delle contestazioni alla Brigata Ebraica, delle bandiere dello stato sionista che saranno puntualmente e stupidamente bruciate, dopo essere state portate quasi al solo scopo di venire contestate. Minoranze rumorose, seguite e accompagnate da editorialisti ora pacatamente accigliati, ora di randello attrezzati, avrebbero monopolizzato il dibattito attorno a questioni serissime quanto tecnicamente lontane dalla celebrazione storica e civica del 25 Aprile. Per arrivare opportunamente alle quali, partendo dalla Liberazione dal Nazifascismo, si sarebbero dovuti compiere molti passaggi culturali e umani complessi e doverosi, figli di un serio dibattito tra persone serie: tutte cose, oggi, sostanzialmente impossibili. Pur sapendo che non ci libereremo comunque dei dibattiti futili, capziosi e superficialmente polarizzati, ci troviamo perfino a ringraziare l’ottusità burocratica e servile che ci ha consentito e obbligato a parlare delle radici neo-fasciste della storia politica di Giorgia Meloni e della sua cricca di amichetti (“amichettismo” è parola sua, e ci permettiamo di farla nostra).
E dunque, il cortocircuito di questo 25 Aprile è molto chiaro, e lì da vedere. Giorgia Meloni, i suoi famigliari di sangue o acquisiti, i suoi amici intimi, i compagni di viaggio che siedono in posti chiave nella politica, nell’alta burocrazia italiana, nei ministeri e in Rai, vengono al 99% dallo stesso posto: la destra romana figlia del MSI e del Fronte della Gioventù. Era un posto nel quale non voleva andare quasi nessuno, tranne quelli e quelle che volevano mettersi contro vento. Nella sua autobiografia, “Io sono Giorgia”, la presidente del Consiglio spiega la dinamica psicopolitica dell’inizio della propria militanza con particolare nettezza, come fosse un manifesto: “Di là c’era la sinistra che occupava le scuole e si fumava le canne, e allora io a 14 anni vado a bussare alla sezione del MSI del mio quartiere di periferia”. Laggiù, e poi risalendo con l’attivismo e la passione e la tenacia le gerarchie di un partito che ancora aveva la fiamma nel cuore, Meloni incontra giovani compagni di viaggio che come lei scelgono di giurare fedeltà a errori e orrori del Novecento, e altri che in quegli errori sono cresciuti, e potrebbero essere suoi padri, se non addirittura nonni. Come tutte le esperienze vissute orgogliosamente nell’estrema minoranza, e dentro a una storia politica di pura testitmonianza, essendo esclusi dall’arco costituzionale e quindi da qualunque realistica prospettiva di potere, il cemento è l’orgoglio, e il senso di appartenenza cameratesca alla stesso branco è quasi tutto. Sono anni nei quali ragionevolmente neanche loro potevano credere a un ritorno del Fascismo ma anche, altrettanto, in cui non avevano paura a separare il “fascismo movimento” dal “fascismo regime”: come a dire che non solo Mussolini aveva fatto cose buone, ma ad essere buona, soprattutto, era l’idea iniziale, poi pervertita dalla guerra, da Hitler, e dalla paura del bolscevismo. So che sembra tutto polveroso, lo so; e so anche che a molti quel contesto risulta stomachevole e notorio: tuttavia, è dentro a quel clima che cresce e si socializza alla politica Meloni. È con quei compagni di viaggio, in quella Roma che un po’ fa il saluto romano e un po’ trova compagnia alla Magliana, che inizia il suo cammino. Orgogliosamente, sentendosi in un fortino, in un branco con attorno solo avversari.
I tempi cambiano in fretta, però, e lo fanno seguendo una piega inimmaginabile all’inizio degli anni Novanta, cioè quando Giorgia aveva messo piede in sezione. Nel 1993, quando si vota per il sindaco di Roma, Silvio Berlusconi – che in quel momento è solo un imprenditore “tentato” dalla politica – dice che se fosse cittadino romano, tra Fini e Rutelli sceglierebbe il primo. Gianfranco Fini è ancora il custode di quella tradizione, ma anche il leader politico che si è incaricato della transizione democratica e costituzionale di quella storia. È l’esponente moderato di quella storia da lungo tempo, è l’uomo che ha già fatto in modo di indicare la porta a Pino Rauti con tutto il suo portato di continuità che inizia a Salò e finisce nei momenti più bui degli anni di piombo. Ma nessuna svolta è ancora stata fatta. La scomposizione del quadro politico della Prima Repubblica e la discesa in campo di Berlusconi imprimono un’accellerazione incredibile. Quando si va a votare nel 1994 alle elezioni politiche, l’Alleanza Nazionale suggerita due anni prima da Domenico Fisichella, è un’idea in fieri, un nome che deve diventare una cosa, addosso a un personale politico tutto figlio del passato. Per un vecchio intellettuale conservatore alla Fisichella, ci sono tanti La Russa e Gasparri, o giovani Meloni, figli di una fede ultradecennale affatto diversa. Il partito di Fini è alleato al centro sud con Forza Italia, che invece al Nord è alleato con la Lega di Umberto Bossi, contro la sinistra, ma anche contro la destra. A due giorni dal voto il Senatur, anche per far capire che maggioranza tranquilla e duratura nascerà, in un comizio ci tiene ad arringare il suo popolo padano gridando: “con i fascisti mai!”. Il governo e la maggioranza nascono instabili a primavera, e non arrivano a mangiare il panettone. A staccare la spina è Umberto Bossi, mentre il cammino della Destra nazionale verso la piena normalizzazione istituzionale è appena iniziato. Quando nel 1995, con la svolta di Fiuggi, Fini trascina il suo partito ad incorporare le tesi di Fisichella nel DNA politico di Alleanza Nazionale, e per la prima volta a riconoscere il pieno valore dell’Antifascismo, Giorgia Meloni ha appena compiuto diciotto anni: eppure, in qualche modo, è già una reduce del Novecento. Tanto che nel 1996, diciannovenne incosciente, rilascia un’intervista che le resterà appiccicata a lungo, nella quale dichiara che “Mussolini è stato un buon politico, come lui non ne abbiamo avuti negli ultimi cinquant’anni”. Purtroppo, naturalmente.
È un’orfana politica, lei, e lo sono in tanti, invero. Si vede tutto chiaramente scorrendo avanti e indietro l’album di famiglia di quella genìa politica. Negli anni a venire sentiremo Gasparri – poi passato a godersi un vitalizio in Forza Italia, dopo aver ricoperto con diligenza berlusconiana l’incarico di Ministro delle Telecomunicazioni – chiedere retoricamente: “Non vorranno mica che torneremo a rendere paludoso l’Agro Pontino, solo per dimostrare che Mussolini ha fatto solo cose brutte?”. O Alessandra Mussolini, per stare in famiglia, che polemizzava in modo assai colorito con Fini, dopo che nel 2001, in visita allo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme accompagnato dall’allora Preisdente delle Comunità Ebraiche – un grande antifascista come Amos Luzzato -, ebbe a definire il Fascismo come “Male Assoluto”.
Acqua passata, si dirà, passata per sempre. Lo sarebbe stato davvero se, i corsi e i ricorsi della storia, non avessero consentito o favorito la nascita di un nuovo partito della nazionale e identitario a destra del Berlusconismo in decadimento. Sì, parliamo di Fratelli d’Italia, del partito fondato da Giorgia Meloni. Cha ha sì dall’inizio al suo fianco un sicuramente-non-fascista come Guido Crosetto. Ma altrettanto fondativa è un’altra vicinanza, assai meno cristallina nel distacco dal passato, quella di Ignazio La Russa. Che pur avendo seguito tutte le svolte finiane in chiave conservatrice democratica, non è mai riuscito a dire a chiare lettere di sentire proprio il valore dell’antifascismo, semmai il contrario. E che rappresenta la radice storica di una militanza che ritiene di non avere niente da cui dissociarsi. Il rinascere di quello spazio politico, e il ricomparire di quella Fiamma, sono il luogo e l’occasione perchè molti malcontenti sopiti e troncati durante le svolte degli anni prima riemergano. Sono anche il luogo nel quale ritrovarsi quasi tutti, insieme, in nome – prima di tutto – dei legami che furono. Legami, è bene ricordarlo, anzitutto umani. Fatti della fiducia che si ha solo nei confronti di chi è cresciuto con noi, tanto più se mentre crescevamo eravamo sbeffeggiati, marginalizzati e trattati da stronzi. Certo, direte voi, non lo prescrive nessuno di difendere il fascismo quarant’anni dopo il 25 Aprile. È verò, ma qui stiamo parlando di cosa costruisce la psicologia di un gruppo e di una leader, non dei suoi torti o delle nostre ragioni.
E quindi sì, infine, il caso-Scurati ha un merito enorme: perchè mostra la microfisica personalissima del potere meloniano. Personalissima perchè il potere e le scelte sono tutte fondate su una fiducia personalissima nei confronti di chi ha fatto tutti i gradini della scala con lei, o di chi ha custodito la scala nei decenni precedenti. È una caratteristica della politica di questi anni, invero, ma è particolarmente sviluppata nei gruppi politici che si sono definiti orgogliosamente in forza della propria marginalità. C’è la gratitudine per chi ci ha creduto quando non ci credeva nessuno. C’è il permanere dell’ammirazione per chi aveva il “coraggio” di difendere Mussolini nell’Italia del ’68. C’è la comfort zone soffocante di un gruppo di potere tutto amico, tutto romano, troppo disponibile ad indulgenze verso un passato sconcio. Qualcuno teme che, fatte queste premesse, ci sia il rischio addirittura di un ritorno al regime, dello sviluppo di un progetto politico che punti là, almeno in parte. Vigilare va sempre bene, anche per evitare che certe antropologie facilitino brutte leggi e brutte pratiche, come picchiare gli studenti o insultare stranieri e omosessuali senza paura di pagare dazio. Personalmente non credo a una società disponibile a nessun regime, se non a quello della piccola sopravvivenza dell’illusione micro-borghese. E però, il costante rifiuto di sentire la Liberazione dal Nazifascismo come la propria festa è significativo, non tanto del rischio di un ritorno al regime, ma piuttosto di un fatto storico ed etico: le radici, anche remote, di una forza democratica non possono essere a Predappio o a Salò. Se Meloni non recide questo cordone perchè in fondo crede ci sia del valore da salvaguardare, allora abbiamo un problema grave di fedeltà alla Costituzione. Se non lo fa – come personalmente credo – perchè non vuole perdere i vecchi amici, allora ha lei un problema grave, in prospettiva. Vorrebbe dire che ha paura di perdere pezzi di una classe dirigente composta de fedelissimi cretini, o da cretinissimi fedeli. In un caso o nell’altro, sarebbe un problema letale per tutti. Capa compresa.
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