Partiti e politici

Majorino: “Posso vincere, ma se perdo resto in Lombardia per rifare la sinistra”

1 Febbraio 2023

Pierfrancesco Majorino si avvicina all’ultimo miglio di una partita che la sua squadra, arrivata alla settima sfida con l’avversario, non ha mai vinto. Sono infatti venticinque anni – “ventotto”, precisa lui – che alle elezioni regionali lombarde il centrosinistra perde. Quasi sempre straperde, più raramente ha perso e basta. La sconfitta migliore, quella del 2013, ha misurato in quattro punti percentuali e 260 mila voti la distanza tra le due coalizioni. In questi tre decenni sono cambiate tante cose: l’impero di Formigoni è finito nella polvere delle inchieste, in una strana sincronia anticipatoria rispetto al lunghissimo tramonto del berlusconismo. La Lega autonomista che nella Lombardia aveva i suoi miti fondativi è diventata nazionalista sulle spalle, ora malferme, di Matteo Salvini, primo leader milanese della storia del partito. Un politico affermato ed ex ministro di peso del centrodestra, come Maroni, ha trovato riparo sicuro a Palazzo Pirelli quando la Lega arrivò al minimo storico, prima di cedere il posto a un amministratore locale inizialmente semisconosciuto fuori dalla sua Varese, come Attilio Fontana. Nel 2001, nel vano tentativo di rispondere alla spinta autonomista che veniva da destra, il centrosinistra ha approvato una riforma costituzionale che ha dato centralità e potere proprio alle regioni. È perfino cambiata la simbolica sede della Regione, e al Pirellone di Gio Ponti si è affiancato il mastodontico palazzo della regione di oggi. Eppure, il risultato finale, finora, è stato sempre lo stesso. Accettare di partecipare e di provare a giocarsela significa dunque, anzitutto, guardare indietro.

“La sinistra” dice Majorino, parlamentare europeo del Pd, dopo una lunga militanza da consigliere e assessore a Milano, prima con Pisapia e poi con Sala, “ha spesso dato l’impressione di essere altro dalla Lombardia, di sentire questa terra come irrimediabilmente altro da sè”. Un sentimento che, per definizione, matura nella reciprocità. “Le ragioni sono tante, e ovviamente cambiano riavvolgendo il nastro della storia di cui parliamo. Di sicuro siamo stati spesso, troppo spesso, poco riconoscibili, al di là dell’ottima azione di governo svolta in tante parti, in città importanti di questa regione. Una delle cose che più mi affascina di questo lavoro di ricostruzione, che ovviamente speriamo ci porti anche a vincere, è la presa di coscienza che la Lombardia siamo anche noi”. Un “noi” che può sembrare doppiamente complicato per un centrosinistra che, in questo caso, si presenta a forte trazione milanese, mentre il capoluogo, per tante ragioni sociali ed economiche, sembra sempre di più un mondo a parte. La distanza tra Milano e il resto della regione non è sempre più ampia, ormai una voragine incolmabile? “È un tema vero, ma non ci sono certo solo due Lombardie. Non c’è solo Milano contrapposta al resto della regione, c’è un territorio fatto di cose diverse, di comunità montane e valli, di tanta provincia in cui isolamenti e disservizi non fanno più notizia e di piccole comunità, di città dinamiche. E anche Milano racchiude più città, dentro di sé: è il paradosso di un luogo che attrae con la sua forza e il suo dinamismo delle opportunità, ma poi respinge ed espelle perché costa troppo per quasi tutti”.
Nel mentre, la campagna elettorale e le elezioni regionali sembrano interessare poco. Dipende anche forse dalla fine dell’ideologia “nordista” della Lega? “È sicuramente cresciuta la disillusione rispetto a ciò che è la Regione, su cosa può fare. E questo distacco, per assurdo, è anche un capitale politico su cui sembra puntare la destra per rimanere al governo. Perché – prosegue Majorino – l’abbassamento delle aspettative e delle ambizioni dell’istituzione, rispetto alla stagione di Formigoni, è clamorosa. Lo dico senza poter essere sospetto di simpatie formigoniane, l’ho sempre avversato. Ma là c’era una visione, un disegno, una prospettiva, molto diversa dalla mia, ma c’era. Ha fatto anche errori pesanti che paghiamo ancora, ad esempio sulla sanità, ma c’era un’ambizione che la regione di oggi non ha, perché è diventata un condominio incattivito. La regione deve tornare invece a pensarsi come istituzione utile, di servizio, anzitutto in campo socio-sanitario, ma anche in settori dove non tocca palla da molti anni, e penso anzitutto al tema del lavoro”.

Alle spalle c’è una storia lunga “di economia privata dinamica, che funziona, che corre”. La locomotiva d’Italia. Decenni a dire – a ragione – che quassù ci camminava a ritmi tedeschi. Un racconto e un modello di sviluppo che mostrano qualche crisi, qua e là. “E noi abbiamo da un lato bisogno di un lavoro di miglior qualità e meglio pagato” spiega Majorino. Ma anche – aggiunge – “di confrontarci col paradosso, che a sinistra facciamo fatica a mettere a fuoco, di imprese che offrono il lavoro e di lavoratori non ne trovano, perché non ci sono. Su questi temi abbiamo bisogno di sviluppare a sinistra uno sguardo autonomo sulla Lombardia, senza cedere alla retorica banale che dà la colpa al reddito di cittadinanza, da un lato, e senza però pensare che da Roma riesci a capire questa terra. Non è vero, non ci riesci. Sono cose che già pensavo, però…”. Però, sembra, anche Majorino non le sapeva con la stessa chiarezza, prima di battere la Regione palmo a palmo. “È vero, da questo punto di vista è un’esperienza straordinaria”. Ricordiamo i tempi, ormai remoti, verso il 2005, in cui su questi temi ci confrontavamo, quando Marco Alfieri e io animavamo, sul Riformista, alcune pagine che del complicato rapporto tra sinistra e nord facevano uno dei temi di indagine. “È vero, probabilmente allora la tendenza, anche la vostra, era di guardare a un tema giusto troppo da destra, diciamo così, magari perdendo pezzi importanti di identità e di bisogni, pensiamo ai beni comuni, alla questione ambientale, al futuro di un turismo montano sostenibile. Però, certo, le questioni erano tante, e noi per troppo tempo non ci abbiamo pensato abbastanza“.

A questo punto però si impone una domanda: ma perché quest’esperienza straordinaria di conoscenza la sinistra lombarda non l’ha fatta con regolarità e pazienza, stando all’opposizione, visto che ha avuto appunto 28 anni? Perchè sembrate svegliarvi quando manca qualche mese alle elezioni e partite con uno distacco consolidato di una ventina di punti di svantaggio?
“Chi ha fatto opposizione in consiglio regionale ha fatto un grande lavoro. Ho grande rispetto, lo dico davvero. È però evidente che noi, come Partito Democratico, non possiamo replicare il modello degli scorsi decenni. Io sono convinto di essere davvero in partita, perchè ormai tutti sanno che Letizia Moratti arriverà terza, e quindi molti elettori potenzialmente attratti dal terzo polo voteranno me per cambiare rotta. Detto tutto questo, dovessero andare male le cose e dovesse vincere Fontana, io resterò in Lombardia, mi dimetterò da parlamentare europeo e lavorerò in Regione per ricostruire davvero”. Per iniziare una traversata del deserto che la sinistra del Nord doveva iniziare venticinque – anzi, ventotto – anni fa.
Per concludere, al Majorino che dopo quest’esperienza diventa, definitivamente e per restarlo, una figura della politica nazionale, sul congresso del suo partito: chi vincerà, tra Bonaccini e Schlein? Lui, al fianco di Elly fin dall’inizio, dribbla il pronostico. “Chiunque vinca, tra i due che citi, avrà un disperato bisogno dell’altro o dell’altra, dal giorno dopo. Stefano senza Elly o Elly senza Stefano non potranno fare tanta strada”. Anche a livello nazionale c’è un deserto da attraversare. E almeno in questo, viste da sinistra, l’Italia e la Lombardia sembrano proprio assomigliarsi.

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