Dimissioni di Lupi: in democrazia nessuno è indispensabile
A parte le grida di scandalo lette e ascoltate negli ultimi due giorni tra social e tg, la vera ragione per cui il ministro Lupi doveva dimettersi l’ha […]
Nell’impervio cammino che porta una società a considerarsi moderna e civile, le dimissioni di Maurizio Lupi rappresentano in modo inequivocabile una tappa di una certa sostanza. Intanto perché sono arrivate in un tempo breve e qui la fretta non è cattiva consigliera ma solo l’espressione temporale di una decisione solenne e produttiva (per il governo, per l’opinione pubblica). Ma soprattutto perché rappresentano quel famoso caso di scuola che una classe di buoni liceali offrirebbe al professore di filosofia come plastica simulazione di quella condizione sociale che unisce etica a politica. Al centro del villaggio c’è – appunto – l’uomo politico che per la giustizia dei giudici togati rimane “onesto”, non sospetto dunque d’essere considerato penalmente perseguibile. Parallelamente, girano intorno a lui tutti quei sentimenti che compongono l’animo umano e le sue debolezze, debolezze, sia chiaro, che appartengono all’animo umano in quanto tale, non solo all’uomo politico. Ma poi all’uomo politico, esattamente in quanto uomo politico, toccano responsabilità specifiche che noi umani semplici tendiamo invece a considerare, per noi stessi, a livello di pure bagatelle. Parliamo di quei piaceri ricevuti, di quei piaceri richiesti, di un piccolo viaggio, di un regalo, di una raccomandazione, di una tensione comprensibile per il destino dei nostri amatissimi figli (“Ogni scarrafone” ecc. ecc.).
Questo perimetro è uno spazio molto delicato per un politico, Perché egli sente di potersi muovere al suo interno con una certa disinvoltura, che gli vengono dal ruolo che riveste e dalla considerazione che di lui hanno gli altri, i quali un po’ per interesse un po’ per credulità tendono a proiettarlo nella divinazione. Sappiamo molto bene come l’Italia, per cultura e sviluppo, abbia sempre considerato quello spazio come il luogo della perdonanza, dove l’elemento del “così fan tutti” potesse far premio intanto sul semplice buon gusto, sullo stile, ma poi soprattutto sulla creazione di un sentimento collettivo che portava inesorabilmente verso il basso i valori fondanti di una società civile.
Cos’hanno potuto dire, se ci fate caso, i difensori di questo santo sepolcro laico e ormai sfregiato da mille e mille vergogne delle nostre Repubbliche? Che in fondo la questione si riduceva a una amorevole raccomandazione per il figliolo Luca e dunque che ci fosse da scandalizzarsi proprio no. Così ha scritto Vittorio Feltri e da un banalone come lui non c’era da aspettarsi molto di più, così purtroppo ha scritto, seppur con lo spessore intellettuale che gli riconosciamo, anche Giuliano Ferrara che non ha saputo trovare altre chiavi che quel meccanismo da b-movie. È un peccato invecchiare in maniera poco giovane, rispondendo sempre agli stessi stilemi, rigidi come stoccafissi surgelati, neppure rendendosi conto che in questi anni pur tormentati si è fatto largo un concetto certo rivoluzionario per un Paese come l’Italia ma evidentemente ancora duro da introiettare nella fantasia di certuni: il merito (i due peraltro sono noti alle cronache proprio per il merito).
Che cosa, infatti, in questa vicenda Lupi ha rappresentato il “valore aggiunto”, capace di spostare i termini della questione? Esattamente il merito, elemento distintivo nei discorsi dei nostri giovani che s’affannano a trovare un lavoro, che presentano i loro curricula in ogni dove fondando le speranze semplicemente sulla profondità della cose studiate, sulla suggestione di esperienze fatte, sulla maturità appassionata di considerare quelli gli unici strumenti per avere accesso al mondo del lavoro. Nel caso Lupi, il merito è intervenuto nella storiaccia più politica, quella di un ministro che poco o nulla sapeva del suo dicastero e che appariva decisamente nelle mani di questi margniffoni di potere che invece tecnicamente tutto sapevano e disponevano. Un ministro che non si faceva neppure una domanda sull’opportunità che la direzione lavori di quasi tutte le opere pubbliche finisse nelle mani di una società condotta da un suo carissimo amico. Siamo, appunto, al carissimo amico. Nella scala dei (dis)valori, chi scrive considera questi ultimi aspetti decisamente più devastanti della raccomandazione del giovane figliolo, comunque grave in sè.
Nel cammino verso una società in cui pesi e contrappesi compongano un equilibrio virtuoso, possiamo considerare il caso Lupi come una proiezione positiva verso un futuro più civile. Non dobbiamo considerare come irrangiungibili quelle società che fanno sentire il peso dell’opinione pubblica sulle questioni politiche, che ne spostano i termini, che mettono in carico ai loro rappresentanti il timbro della responsabilità, per cui dimettersi per un pezzetto di tesi di laurea copiata, per delle marchette previdenziali non pagate alla propria colf, per un filmetto porno messo in nota spese dei contribienti e molto altro che a noi pare di nessun rilievo ma che all’estero fa semplicemente la differenza. No, queste società non devono essere irrangiungibili.
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Caro Michele, ma di quale merito parliamo se non abbiamo tutti la stessa possibilità di accedere alle università con un alto ranking e che garantiscono lavoro perché costano troppo, se non possiamo tutti accedere ai master per lo stesso
motivo, se non possiamo tutti fare esperienze di studio all’estero o permetterci di non essere pagati per lavori che fanno cv. Le ricchezze accumulate dalle famiglie vanno pian piano esaurendosi e così anche la possibilità per i giovani di accedere agli studi. La raccomandazione non è un male in sè, lo è se il raccomandato è un incompetente. cari saluti