Partiti e politici
L’agonia interminabile dell’etica
Sono passati trent’anni dal 19° Congresso del PCI: quello che decise, a maggioranza, la fine della storia di quel Partito e l’inizio di una travagliata fase di transizione, che non è ancora terminata, e che ha portato quel partito, come fosse una palla di neve, a scivolare via via verso destra, travolgendo e trascinando con sé tutti i partiti incontrati sulla sua strada: il PSI, il PSDI, il PRI, la DC. Finché, oggi, tutti questi sono confluiti in un magma indistinguibile, chiamato PD, che assomiglia molto più al partito di Andreotti e Fanfani che ai sogni di personaggi che hanno veramente dato una prospettiva di cambiamento al nostro Paese: Berlinguer, La Malfa, Amendola, Lama, Moro, Spinelli – per enumerare solo i più recenti. Non sono comparabili l’uno all’altro ed avevano visioni del tutto differenti tra loro, ma avevano una visione, proprio quello che il PD e non avrà mai, nonostante l’uscita di D’Alema prima e di Renzi poi.
Non dimenticatelo mai. A quel 19° Congresso, Occhetto citò Tennyson e promise un nuovo mondo al di là del sole nascente; Ingrao disse che non credeva in quel mondo e che preferiva tenersi la visione che aveva (a partire dal concetto di lotta di classe); D’Alema disse che oramai il PCI era sputtanato e che bisognava cambiare per poter governare, ora che non c’erano più obiezioni di carattere ideologico, che andavano rinnegate. Governare si doveva, a qualunque prezzo. Dietro questa decisione, probabilmente, c’era anche il fatto che, senza i soldi del PCUS, non ci sarebbero più stati i mezzi per mantenere l’immensa struttura organizzativa che andava molto al di là del PCI (con le Botteghe Oscure e centinaia di sezioni locali), e comprendeva la CGIL, la FGCI, l’UDI, la COOP, l’ARCI e diverse fondazioni ed associazioni, che strutturavano e sostenevano la partecipazione alla vita pubblica di almeno due milioni di cittadine e cittadini che, in buona parte, altrimenti, non avrebbero avuto mai avuto i mezzi ed i luoghi per partecipare alla politica attiva.
Anche se oramai usciti dal PD, i fantasmi di D’Alema e Renzi, che hanno ucciso la grande tradizione sociale del PCI, aleggiano, invischiano, contribuiscono ad un disastro oramai irrecuperabile, perché sono anche responsabili della scelta di una dirigenza politica che non ha né il retroterra politico, culturale, retorico, empirico, di consapevolezza, né la visione che regalò a chi votava il PCI negli Anni di Piombo il sogno reso eterno, romantico e teneramente risibile in “Palombella Rossa” di Nanni Moretti. In quel 19° Congresso il PCI avrebbe dovuto uccidere Palmiro Togliatti. Sarebbe bastato questo. Avrebbe dovuto dire, come alcuni (pochi) dissero, che la feroce dittatura bolscevica rappresentava non il comunismo, ma il suo peggiore tradimento. Che fosse necessario tornare alla fonte ideale, etica e pragmatica del Comunismo: la consapevolezza ed in prospettiva il superamento della lotta di classe, l’organizzazione statale dell’economia, l’alfabetizzazione e spinta culturale verso tutti, ovunque, a qualunque costo.
Ai tempi scelsi il Partito Repubblicano, perché la visione di Ugo La Malfa mi sembrava una modalità di realizzare alcuni capisaldi del PCI, sia in economia che nella cultura, che il PCI, stremato dalla sudditanza dai sovietici, vincolato a quel benedetto tragico fallimento, non avrebbe mai nemmeno tentato. Occhetto si intestò il collasso dell’Unione Sovietica, implicitamente, perché gran parte del suo gruppo dirigente, D’Alema su tutti, voleva andare al governo, e fece il mea culpa affermando (bugiardamente) che i crimini del bolscevismo fossero il fallimento del comunismo. In cambio di una patente populista di “meno zozzi della marrana” dai magistrati (di destra) di Mani Pulite, scelse di inseguire il populismo berlusconiano e non fece ciò che sarebbe stato giusto fare: abiurare l’URSS, lo Stalinismo, Togliatti, e ribadire che la guida economica dello Stato fosse ancora cosa buona e giusta (fin quando partecipa a selezionare l’imprenditoria privata), ma in un quadro di coinvolgimento delle classi che, provenendo dal proletariato, si stavano emancipando grazie alla crescita di educazione, di consapevolezza democratica, di cultura, di gusto, e di livello di vita.
Il PCI è corresponsabile di questo che è un tradimento ancora peggiore, che è quello perpetrato dai partiti nati dal disastro della Seconda Guerra Mondiale ai danni del miracolo italiano. Un tradimento reso visibile dal Caso EniMont: la corruzione più schifosa, la svendita dell’immenso capitale industriale, tecnologico e finanziario statale italiano (IRI) ad apparenti capitani del capitalismo che si sono rivelati ladri meschini ed arruffoni e che hanno attaccato un cancro incurabile in tutti i settori in cui hanno messo le mani: banche, poste, media, telefonia, siderurgia, metalmeccanica, computeristica, cantieristica, et cetera. Non percependo più miliardi da Mosca e da Washington, un’orda inesausta di galoppini ha sbranato qualunque asset per potersi costruire la villa al mare, garantirsi una vita sessuale segreta o comprare la spider.
Da non crederci. Il dualismo ideale tra PCI e DC diventa, all’arrivo di Berlusconi, quello tra fighetti e bauscia. Berlusconi vincerà le elezioni proponendo ai cittadini di essere egoisti, cattivi, maleducati, ignoranti, aggressivi, violenti, rapaci e cancellando, in una sola generazione, gli sforzi compiuti, in 80 anni, da tutto l’arco politico, dal PCI alla DC, dal liberalismo fino persino a parte del fascismo: istruire milioni di proletari ed aristocratici boriosi fino a farli diventare cittadini, nel rispetto e nella dialettica delle provenienze di ceto e regionali. Ed è colpa del PCI, e di quel sventurato Congresso, che ancora non è finito, che continua come un fiume di lava sotterraneo, che non se ne vede mai la fine possibile, se il populismo ha inghiottito tutto: il senso dello Stato, della solidarietà, della politica, dell’onestà, dell’ambizione, dell’intelligenza, della preparazione, della competizione, ma soprattutto dell’etica e della partecipazione.
Due parole di cui si è perso il senso, oramai. L’etica, oggi, è creduta “le belle maniere”. L’etica, invece, come spiega Gyorgy Lukacs, è la pratica dell’ideale per sostenere, insieme, la cittadinanza nella sua intierezza. L’etica è cresciuta nei secoli, specie grazie a Hegel, a Popper, a Gramsci, a Gobetti ed allo strutturalismo, ed è l’esercizio pragmatico della cura per l’umanità nel suo complesso. L’etica è la base della democrazia, perché non considera sufficiente che ognuno dica la propria opinione, ma impone a tutti di documentarsi, prima di dirla – esattamente l’opposto di ciò che oggi, non solo a causa di millantatori e manigoldi come Salvini e Grillo, viene dato per scontato.
Lo cantava anche Giorgio Gaber, disperatamente, come un eroe di Cervantes che assalta i mulini: per ottenere una società etica è necessaria la partecipazione – che è la grande idea del PCI di molti dei padri (Berlinguer su tutti), che avevano capito che il settarismo ecclesiastico di Togliatti era altrettanto criminale quanto quello di gran parte della dirigenza democristiana. Quella dirigenza, per intenderci, che ammazzò Aldo Moro e l’ultima possibilità di svolta di quell’immane movimento d’ispirazione medievale, alla faccia di De Gasperi e tanti altri uomini e donne di valore.
Dopo la morte di Moro e Berlinguer, non ci si poteva aspettare che i burocrati rimasti fossero in grado di affrontare il grande cambiamento causato dalla fine della Guerra Fredda. Lo stesso PRI, morto La Malfa, è stato affogato da Spadolini. I miei vecchi amici Repubblicani mi disprezzeranno per questo, ma a mio parere Spadolini e Giorgio La Malfa hanno simbolizzato la resa della tradizione lamalfiana al paternalismo corrotto dell’Italia di Craxi, Andreotti, Forlani, D’Alema, Berlusconi. La fine dell’etica, l’inizio del Regno dell’estetica.
Ripensando al passato, l’ultimo baluardo era il PCI, lì albergavano le ultime forze capaci di tenere in vita quell’immane struttura dandole senso, contenuto, potere, voce pubblica, capacità di incidere. Sarebbe stato necessario chiedere ai cittadini italiani se fossero pronti a diventare adulti, e continuare senza il paternalismo sovietico o americano. Non è stato fatto, e ora paghiamo tutti, in modo grave, opprimente, disperato, questo peccato originale. Il fatto che Occhetto e gli altri non furono in grado di capire questo, ma si rivelarono vanesi e piagnucolosi apparatcik, è una tragedia dalla quale, forse, nemmeno lo choc del COVID 19 sarà capace di farci riprendere.
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