Prima ci sono i fatti, i numeri schiaccianti della vittoria di Donald Trump. Maggioranza assoluta sicura al Senato, alla Camera, vittoria a valanga nella conta dei grandi elettori e, con buona probabilità, anche nel voto popolare complessivo. Contro i tribunali che lo condannano; contro molti big del suo partito che lo definiscono fascista e inaffidabile; contro le voci delle élite progressiste mondiali e statunitensi; contro un partito democratico lasciato in braghe di tela dal decadimento di Joe Biden, dalle sue decisioni dolorose e necessarie, quanto tardive; contro tutto questo ha vinto, stravinto, la sua battaglia personale Donald Trump, che quattro anni dopo la sconfitta e l’ignominia di Capitol Hill torna alla Casa Bianca, senza bisogno di golpe, ma col voto a valanga del popolo statunitense. Questi sono i fatti, e come spesso capita si sono incaricati, nella loro brutale semplicità, di manifestarsi e di smentire i racconti.
I racconti, già. Riavvolgiamo il nastro degli ultimi mesi, a partire dal 21 luglio scorso, nel quale Joe Biden ha ufficializzato il suo ritiro da una corsa che per lui si era fatta impossibile umanamente, e certamente perdente dal punto di vista politico. La sua vice, sempre trattata con scetticismo da tutti i principali osservatori, e nascosta da anni all’opinione pubblica dal gabinetto di Biden e dai maggiorenti del partito democratico, è stata di fatto l’unica vera candidata a sfidare Trump. Nessun altro ha davvero ingaggiato una battaglia politica interna, tutte le altre, timide ipotesi, sono tramontate in una notte. Anche più in fretta. Di colpo, la vicepresidente imbarazzante e svagata è diventata – in un racconto smemorato – la “miglior candidata possibile”. Questa narrazione improvvisata era sostenuta invero dal solo elemento fattuale di un improvviso ritorno dei grandi finanziatori al fianco della campagna democratica. Col senno di poi, si potrebbe pensare che dopo aver smesso di sprecare denaro su un candidato sicuramente perdente, hanno investito su una candidata molto probabilmente perdente, per non trovarsi nella spiacevole condizione di doversi giustificare dopo, appunto, quell’improbabile vittoria. Sia come sia, quel che si è raccontato, dall’investitura di Harris in poi, è che era in atto un’impressionante rimonta. Sicuramente è avvenuto un significativo cambiamento in meglio, nei sondaggi, rispetto a quando il candidato era il presidente uscente, visibilmente malato e incontrovertibilmente inadeguato. Ma questo poteva bastare a cancellare il vantaggio accumulato da Trump? Ed era davvero pensabile che anni di volontario nascondimento della figura di Harris, e di critiche a lei rivolte, scomparissero? E un intero glorioso partito, quello dei Democratici d’America, poteva risultare credibile dopo che si era mostrato incapace di guidare in modo ordinato la necessaria uscita di scena di Biden, proponendo ai suoi elettori e militanti una scelta tra diverse proposte, possibilmente solide e credibili? Il racconto dei media e delle élite anti-Trump ha rimosso queste domande ovvie, da subito, e le risposte sono arrivate chiare nelle urne di ieri.
Più profonda e radicale della rimozione della debolezza di Harris, e soprattutto di tutto il processo che ha portato alla sua candidatura perdente, c’è la rimozione – prolungata ormai negli anni – di uno sguardo sulla società impoverita, incattivita, frustrata, che ha in Trump il suo improbabile e consolidato idolo. È quell’America profonda fatta di “luoghi che non contano”, che somiglia molto alle province di tutto l’Occidente che nella più pacifica delle ipotesi si rivolgono a partiti conservatori o ultraconservatori, e altrimenti cercano “rivincita” nelle Brexit e nei populismi più spinti, estremi e reazionari. La mappa del voto, quando sarà consolidata, ci mostrerà il prevalere di Harris nelle enclavi delle coste, nella New York che guarda all’Europa e nella California che governa le comunicazioni del mondo, e in mezzo un mare rosso di voti repubblicani. È quell’America profonda che guarda indietro, considera l’aborto un omicidio e l’omosessualità un’offesa a Dio e alla patria, ed è unita in una strana saldatura con quella degli Elon Musk, un pugno di miliardari totalmente libertari nei comportamenti, che vorrebbero tasse al 3% e uno stato così leggero da permettere strade militarizzate a protezione dei propri quartieri lussuosi serviti dalla piena automazione. I primi votano, i secondi finanziano, Trump viene eletto.
Giudicare e condannare chi ha alle spalle una carriera come quella di Trump, i tribunali di mezza America che lo condannano, un tentativo di golpe mal fermato, è facile, e perfino politicamente doveroso. Tuttavia, il giudizio facile non è mai stato di aiuto alla comprensione dei fenomeni, soprattutto quelli politicamente e civicamente più pericolosi. Una volta di più, con la chiarezza più limpida e spaventosa, il voto americano chiede al mondo dei saperi e dei poteri progressisti di guardarsi attorno e dentro, e di capire come mai, da anni e anni, non riesce più a parlare al mondo dei più deboli, dei più fragili, cioè di quelli che la sinistra mondiale ha sempre aspirato, in tutte le sue declinazioni, a rappresentare. È doveroso non per “tornare a vincere”, ma per collaborare a un mondo migliore, e per prepararsi a scenari che prima o dopo si presenteranno anche dal nostro lato dell’Atlantico. Si dice, invero, che anche questa volta i primi siamo stati noi, e che Berlusconi è un Trump di trent’anni prima. Le assonanze ci sono, ma sono più delle differenze, e sono forse più rilevanti. A distanziare i due soggetti, è senz’altro lo sdoganamento della violenza e della cattiveria, la legittimazione della piena violenza in una società crudele, per fondazione ed evoluzione. È questa l’America di Trump, e forse l’Occidente che abbiamo davanti, così diverso dal sogno retorico ma tutto sommato verace di Berlusconi, che non si capacitava del perché un pezzo importante d’Italia lo odiasse. Per Trump e il trumpismo, è vero esattamente il contrario: l’odio è il suo combustibile, e insieme il prodotto maturo di una società rancorosa e pessimista, che ignora il cambiamento sociale e quello climatico, costi quel che costi. Perché il futuro non esiste, e pietà l’è morta per davvero: se siamo noi i suoi assassini, lo rivendichiamo col ghigno sulle labbra. Ed è questa, probabilmente, l’abisso più profondo e spaventoso che il mondo tutto ha oggi di fronte, e vede con chiarezza nello specchio del voto americano.
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