Partiti e politici
Il M5s è mutato radicalmente, ma nessuno se ne accorge
Pare che quasi un decennio di studi piuttosto approfonditi sul fenomeno del Movimento 5 stelle non abbiano sortito alcun effetto sui commentatori politici. Ancora oggi si leggono commenti e dissertazioni che rappresentano questa forza politica come un tutto unitario, sia dal punto di vista degli eletti che degli elettori. Sembra inutile ribadire a piè sospinto come la creatura di Grillo e Casaleggio sia composta da un crogiuolo di sensazioni, emozioni, razionalizzazioni, aspettative che ne fanno un soggetto poliedrico, intriso di molte facce e molte anime, non riconducibili appunto ad una unitarietà di fondo.
Dopo il loro primo fulminante successo del 2013, primo partito in Italia con il 25% dei voti, il suo elettorato risultava composto da una sorta di media dei votanti italiani, con circa il 30% che si dichiarava di sinistra, un altro 30% di destra, un altro 30% di “non collocati” ed il resto centristi. Una rappresentazione plastica proprio di come era il paese allora, molto simile peraltro alla situazione attuale. Facile immaginare che dietro a quel voto coesistessero diverse personalità, diverse opinioni politiche, diverse visioni del mondo, che approdavano al Movimento di Grillo con motivazioni tutt’affatto particolari, impossibili a ipotizzare una linea ed un programma politico che potesse soddisfare quell’agglomerato composito di cittadini.
Come ho scritto più volte, ognuno di quegli elettori “leggeva” la propria scelta di voto pensando ad un suo personale M5s, chi contro la casta dei politici corrotti dal potere (uno vale uno!), chi per imprimere quelle riforme sociali che la sinistra aveva abbandonato e chi invece come manifestazione di un forte euroscetticismo di stampo un po’ populista. Governare in nome di quel popolo era di fatto impossibile, viste le istanze spesso inconciliabili, ma finché rimaneva all’opposizione il suo appeal trasversale poteva incrementarsi facilmente.
E questo è accaduto fino al 2018 quando, arrivato al 33% dei voti, di gran lunga la prima formazione italiana in termini di consensi, fu quasi costretto a formare un governo, dapprima con la destra e poi con la sinistra. Il cambiamento radicale quanto meno dell’elettorato pentastellato prende l’abbrivio proprio in quell’anno cruciale. Gli elettori di destra gli preferirono sempre di più la Lega, la destra populista più convincente di Matteo Salvini, per poi trasmigrare nella destra meno ondivaga di Fratelli d’Italia, con la leadership di Giorgia Meloni.
Oggi dentro al Movimento 5 stelle sono rimaste dunque solo due componenti: da una parte i “non collocati”, sempre un po’ antipolitici e anti-tecnocratici (no a Draghi, no all’Europa delle banche) ma meno assolutisti rispetto a prima; dall’altra quelli che si dichiarano di centro-sinistra o di sinistra e vedono nell’accordo programmatico con quell’area politica il futuro del proprio movimento/partito. Giuseppe Conte piace, e molto, ad entrambe le componenti, i primi perché lo considerano effettivamente un cittadino “qualunque” che si dedica alla politica in maniera affidabile, e anche con buoni risultati, i secondi perché capiscono che il suo tentativo di cambiare in parte il M5s è l’unica possibilità di sopravvivenza, ben oltre le idee restauratrici di Beppe Grillo.
E molti tra gli odierni elettori sono concordi nell’aumentare il tasso di professionalità dei propri eletti, perché si rendono ormai conto che per fare politica i dilettanti allo sbaraglio, proprio come nella Corrida di Corrado, non possono che rivelarsi spesso incapaci, andando incontro a risultati esiziali per l’affidabilità della propria forza politica.
Università degli Studi di Milano
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