Partiti e politici
Tutti con Super Mario: i pieni poteri, questa volta, vanno benissimo
Una volta, ormai quasi dieci anni fa, ebbi l’occasione di respirare da vicino il clima che portò alla nascita dell’ultimo vero governo tecnico italiano, il governo presieduto da Mario Monti. Per ragioni professionali e umane, avevo a portata di mano i pensieri e qualche azione di quella borghesia urbana, milanese ma non solo, che si preparava a cavalcare lo scongelamento del blocco berlusconiano e, intuendone la traiettoria, lavorava per sedersi dalla parte dei vincitori, al momento delle prossime venture trattative per la ricostruzione. Seppi, da fonti di prima mano, di grandi banchieri che parlavano con i massimi livelli istituzionali, spiegando di come lo spread “per la sola rimozione del problema” (l’allora inquilino di Palazzo Chigi Berlusconi) avrebbe portato con sè un calo dello spread di centinaia di punti. Sullo sfondo, non lontano, si iniziava a vedere bene che l’estrema periferia milanese di Via dell’Olgettina non era stato il disastro che si denunciava in pubblico, ma una manna dal cielo che avrebbe permesso di far uscire da Palazzo Chigi, una volta, per tutte, Silvio Berlusconi. Era per tutti una questione di soldi, ovviamente, come sempre, e la tenaglia dei mercati aveva reso urgenti tutta una serie di mozioni etiche che quella stessa borghesia, fino a pochi mesi prima, aveva urgentemente affrontato nel chiuso doloroso della propria coscienza. Questa la storia, che ebbi modo di confrontare anche con la cronaca. A governo Monti appena nato, curioso di vedere come il Palazzo della politica viveva quel momento, andai a pascolare per qualche giorno in Parlamento. Mi lasciò sbigottito – dieci anni fa avevo ancora qualche barlume di ingenuità – l’aria da ricreazione festaiola tra i parlamentari che conoscevo. Da destra a sinistra era tutto un darsi di gomito – “adesso siamo in maggioranza insieme”; “questo governo durerà fino a fine legislatura”; “vuoi un caffè?” – cementato da un senso di sostanziale irresponsabilità. Tanto il governo era tecnico, “dei migliori”, i costi e i benefici sarebbero stati equamente condivisi – pensavano loro – e a tutto avrebbe pensato Mario Monti coi suoi colleghi accademici, amici banchieri, raffinati studiosi, e così via.
Come è andata a finire, lo sappiamo tutti. I costi politici di un governo “lacrime e sangue” son stati forse equalmente divisi, ma il prezzo principale l’ha pagato il Pd. Berlusconi rimase centrale nella scena politica, il Movimento 5 Stelle passò dallo 0 al 25% e la legislatura vide nello spazio di un battito di ciglia ascendere e schiantarsi la stella di Matteo Renzi, che oggi torna centrale grazie alla spregiudicata abilità nelle operazioni di palazzo ma, come politico capace di aggregare consenso nel paese, ha i giorni più belli ampiamente dietro le spalle. Anche questa è ormai storia, e invece preme tornare alla cronaca dei giorni nostri, per guardare a quelli futuri. A Roma, per ora, non sono ancora andato, ma la sensazione che si ricava dalla lettura dei giornali e dalle conversazioni è che con tutte le differenze del caso, il clima sia analogo a quello di allora. Non sto parlando di questioni macro economiche, nè delle scelte del governo che verrà. Tra chi è certo che Draghi attuerà politiche espansive proprie del Keynesiano che fu in gioventù e del governatore della Bce che ha marginalizzato il peso del debito pubblico nelle dinamiche internazionali, e chi invece è certo che sarà un grande tagliatore, in linea con il capo della BCE che firmò una lettera lacrime e sangue per l’Italia berlusconiana o per la Grecia del default, mi attengo alla regola aurea dell’incertezza e del silenzio. Che a sbagliare le previsioni abbiamo già dimostrato di essere bravi. Quel che però si può dire con certezza è che, sia che sia ad alto tasso tecnico sia che si porti dentro tutti i pesi “massimi” – si fa per dire – della politica attuale, il governo Draghi nascerà su solide basi di unanimismo. Quantomeno, dentro al Palazzo, dentro ai giornali, dentro ai salotti delle intellighenzie nazionali. I prodromi si vedono già tutti, e i segnali che si leggono contano perfino di più del voto in parlamento, che comunque sarà di ampia maggioranza, più o meno a prescindere da qualunque formazione o formula il presidente del Consiglio schiererà accanto a sè. Poche e marginali le obiezioni politiche, istituzionali, costituzionali, mediatiche, eccetera.
In questo contesto, chi preconizza che probabilmente sarà un esecutivo di alto profilo, sicuramente guidato da una personalità forte, autorevole, rispettatata a livello globale e capace di trattare da parigrado coi grandi del mondo e d’Europa, dice il vero, senza dubbio. Chi da questo fa già discendere un cambio di scenario di lungo periodo e un sicuro Rinascimento italiano, invece, come al solito, corre troppo e troppo lontano, obbedendo a un fenomeno tipico di questo tempo e di questa politica: identificare il sentimento prevalente di oggi, con quello che succederà materialmente tra mesi o anni. Ma è proprio questa, se vogliamo, la malattia più grave della politica e della classe dirigente. Un fenomeno globale che però – pare di poterlo dire – in Italia è al solito particolarmente accentuato e “maturo”, nell’immaturità che denota. Qui da noi, nel Belpaese, non si coltiva la memoria del passato, che consente di formulare delle analogie, per quanto imprecise, sul futuro. Qui da noi, dopo decenni di pervicace impegno, i partiti non sono quasi più portatori di interessi più o meno sani, ma davvero presenti nella società. Sono, più che altro, portatori di interessi particolari, se va bene, o degli interessi particolarissimi dei loro quadri dirigenti o dei loro rappresentanti istituzionali. Finisce così che, quando arriva una proposta alta, come innegabilmente è quella di Draghi, prima si dica sì, e poi si cominci a pensare cosa cercare di ottenere da questa esperienza di governo, per il bene del paese. Ma dopo, molto dopo, aver detto sì, e aver cercato di capire come massimizzare il proprio profitto politico. Basta vedere la facilità con cui in tanti sono passati dal “o Conte o elezioni” a Draghi, dal “Mes o niente” a Draghi senza condizioni, voltafaccia che comunque impallidiscono rispetto a chi è passato dall’incolpare l’euro di ogni male e oggi inneggia al Draghi “fuoriclasse”. Così, sempre per provare a imparare dal passato, non è difficile immaginare che i vari livelli di conformismo e propaganda produrrano nel breve un’esaltazione pubblica e di consenso, per il nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Poi, mano a mano che passerà il tempo, e le crisi economiche di ieri e quelle sanitarie di oggi si salderanno e morderanno, gli entusiasmi si attenueranno, e chi oggi cerca almeno un posto in piedi nella sala intitolata a Draghi si sentirà avvantaggiato nel correre fuori, urlando che non erano mai stati convinti. E un paese che continua a non potersi permettere la piena democrazia rischierà, ancora una volta, di non maturare e di ributtarsi tra le braccia dell’ennesimo “nuovo” populismo. Non è detto che succeda così, intendiamoci, e ovviamente speriamo di no.
Una cosa, in tutto questo, ci conforta. Mario Draghi è un signore che nella vita ha già fatto tutto. Cose materialmente più importanti che dare un governo in piena pandemia all’Italia, o anche – perfino – che diventare, se mai sarà, Capo dello Stato. Avrà gia conosciuto la lusinga, l’opportunismo, la necessità di fare autocritica quando si sbaglia, di cambiare radicalmente rotta quando serve. È una magra consolazione e un problema, doversi fidare della virtù personale di un singolo. Anzi, a ben guardare, è il problema attorno al quale ruota tutta la questione. Ma visto che il massimo che sappiamo fare è trasformare i problemi in opportunità, non resta che augurare a Draghi buon lavoro. Sperando, invero flebilmente, che tutto attorno a lui una classe dirigente esangue capisca che è tempo di sedersi in classe per fare il master, e non di nascondersi in bagno, al suono della campanella, per prolungare la ricreazione.
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