Le elezioni dello scorso 4 marzo hanno delineato in modo chiaro vincitori e sconfitti. Il Movimento 5 Stelle, che ha ottenuto il 32.68% dei consensi alla Camera dei Deputati, in aumento del 7.1% rispetto alle consultazioni del 24-25 febbraio 2013, rientra senz’altro tra i primi. In sua compagnia la Lega, che ha conquistato il 17.35% dei voti alla Camera e ha più che quadruplicato il risultato del 2013.
Tra i perdenti è impossibile invece non nominare il Partito democratico, che si è fermato al 18.76% delle preferenze, in calo del 6.67% in confronto al 2013. Con il consenso attorno al governo Movimento 5 Stelle-Lega che si attesta sul 60%, e con le prossime primarie – gennaio 2019 – quasi alle porte, il Pd si trova a dover valutare la propria storia recente e a scegliere la cultura politica dalla quale ripartire.
Gli stati generali ha sentito su questi argomenti il professor Luciano Mario Fasano e il professor Nicola Pasini, docenti di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano.
Uno dei temi che più ha animato di recente il dialogo all’interno del partito ha riguardato la possibilità di creare un governo con il Movimento 5 Stelle. Alcuni importanti membri della minoranza interna, come Dario Franceschini, Michele Emiliano e Andrea Orlando hanno guardato con favore a questa ipotesi, poi sfumata. Un errore non dialogare con il M5S? Un cul de sac piuttosto, secondo Pasini. “Il Movimento 5 Stelle si è presentato agli elettori dicendo che se fosse andato al governo avrebbe smontato tutte le riforme del Pd. Come avrebbe potuto il Pd, il giorno dopo la votazione, cercare un dialogo con il Movimento? Trovo abbastanza coerente, per una volta, che il ceto dirigente del Pd, a partire dall’ex segretario Matteo Renzi, rispondesse negativamente a un’alleanza in questa legislatura”. Da più parti si è però sostenuto che il Pd avrebbe potuto sfruttare l’ambiguità ideologica del M5S per indirizzare la linea politica degli avversari più a sinistra che a destra. “Questa era una ragione in più per cui il Pd doveva sedersi al tavolo, sapendo che il governo non l’avrebbe mai fatto” ribatte Fasano. “Il Pd era in una situazione per cui da un lato l’elettorato del M5S era in parte costituito da elettori Pd, e dall’altro la maggioranza dei delegati all’Assemblea Nazionale del Pd sosteneva che il M5S fosse una forza politica di destra. I presupposti per rendere difficile l’accordo c’erano tutti, ma una forza politica che governa il Paese dal 2012, che si assume determinate responsabilità, che cerca delle soluzioni per portare fuori l’Italia dalla crisi, non può sedersi sull’Aventino. Avrebbe dovuto confrontarsi con i 5 Stelle e contribuire a fare esplodere le contraddizioni latenti degli interlocutori. La posizione del M5S era l’aggiornamento post-moderno della politica dei due forni di andreottiana memoria. A un certo punto era evidente che sarebbe stato indifferente raggiungere l’alleanza di governo o con la Lega o con il Pd. Perché il Pd non ha avuto anche l’orgoglio e la dignità di sedersi al tavolo, ponendo le sue priorità? La posizione aventiniana non aveva alcun senso, se non quello di tutelare un leader che aveva paura che il partito gli scivolasse di mano nel momento in cui avesse eventualmente trovato una via per tornare di nuovo al governo. Renzi, in quel caso, sarebbe rimasto emarginato”.
In effetti la posizione dominante di Renzi all’interno del partito non sembra essere stata scalfita né dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 né da quella politica del 4 marzo 2018. L’ex sindaco di Firenze continua a influenzare in modo potente la dialettica interna al Pd. E, allo stesso tempo, lancia segnali contrastanti. Prima, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia, dichiara che non si candiderà alle prossime primarie in quanto, dopo averle vinte due volte, ha dovuto schivare i proiettili del fuoco amico. Poi, dal palco della festa del’Unità di Firenze, afferma rivolto all’attuale governo: “Pensano di essersi liberati di me, ma sbagliano. Non vivo nell’ansia di tornare da qualche parte, ma vivo nell’ansia di non lasciare la politica a chi crede che sia un prolungamento di Facebook”.
Viene dunque spontaneo domandarsi come si modelleranno in futuro i rapporti tra Renzi e il Pd, e se il partito debba (e possa) avviare un processo di “derenzizzazione”.
“È una domanda abbastanza complicata” risponde Fasano. “Se guardiamo i dati relativi al gruppo dirigente e ai militanti, si ha l’impressione di un partito ancora molto legato alla figura di Renzi, perché fatica a trovare una leadership alternativa. Col meccanismo delle primarie diventa difficile immaginare un’altra soluzione. Il Pd ha intrapreso la strada della reggenza, e al tempo stesso, a parte le europee, non si delineano a breve elezioni che sollecitino l’ingresso di una nuova forte leadership. A breve ci saranno le primarie, ma esse si svolgeranno in una situazione in cui la leadership che si afferma sulla scena è di nuovo quella di Renzi, per personalità politica, per capacità, per carisma. Queste caratteristiche gli vengono riconosciute anche dai militanti elettori, che vanno ancora ad ascoltarlo e ad applaudirlo alle feste dell’Unità”.
L’opinione di Pasini è di tenore diverso. “Renzi è stato un incidente di percorso dentro il Pd. Ha preso in mano il partito, senza esserci minimamente in sintonia. Il suo errore più grosso è stato quello di fare le feste dell’Unità. Renzi non ha nulla da spartire con una grossa fetta di classe dirigente che veniva dalla tradizione del Pds. C’entrava, poco, con la tradizione invece della Democrazia Cristiana di sinistra. È molto più in sintonia con un elettorato di opinione che negli ultimi vent’anni ha votato Forza Italia. Ha cercato di fare il Blair con vent’anni di ritardo. E ha perso una grande occasione, perché dopo il 40% alle europee del 2014 doveva subito costituire il Partito della Nazione e anticipare Macron. Non l’ha fatto e si sono visti i risultati. Molti dirigenti del Pd sono saliti subito sul carro del vincitore, ma con altrettanta velocità ne sono scesi. Primo fra tutti Dario Franceschini, che è come un’anguilla: è sempre stato vicino al segretario di turno. Certo, Renzi è piaciuto a una parte del suo elettorato, buona parte della classe dirigente con lui ha fatto carriera, ma c’è un problema strutturale di fondo. Non è di sinistra. Renzi, col Pd, non c’entra nulla. Ormai rappresenta il passato del Pd. Può inventarsi qualcosa che non va oltre il 7-8%, se avesse fatto il Macron sarebbe arrivato al 20-25%, ma ormai ha perso il treno”.
Se il passato non ha portato a buoni risultati, il presente non appare più roseo. “Ritengo che il Pd non abbia un’agenda, che sia rimasto alla scorsa legislatura” afferma Pasini. “C’è un balletto di classe dirigente in ordine al riposizionamento dentro il partito, sapendo che potrà rimanere all’opposizione per molto tempo. Mi sembra di capire che ci sia un dibattito, che interessa solo un centinaio di persone dentro il partito e non gli italiani, rispetto a chi sarà il segretario. Non c’è nessuna interlocuzione nei confronti delle forze sociali. A chi vuole parlare il Pd? Ai dipendenti pubblici, agli insegnanti, ai disoccupati? Ogni tanto poi si sente dire che il Pd deve essere più di sinistra, parlare ai poveri. Il segretario reggente naviga un po’a vista e lavora sul quotidiano”.
“Il tema principale è che nel Pd, orfano di una leadership che non può più essere tale, esiste il problema di come superare questa leadership rispetto anche a un giudizio sulla stessa”, prosegue Fasano. “Se dal punto di vista numerico rimango convinto che oggi il Pd resti un partito renziano, soprattutto tra i militanti (mentre nel gruppo dirigente qualcosa si muove), il punto vero è che il Pd è polarizzato sulla valutazione del segretariato di Renzi. Non si possono far convivere nella stessa organizzazione coloro che sostengono che i governi Renzi e Gentiloni abbiano lavorato bene, e quelli che li hanno ritenuti due governi-sciagura. In questo momento, dentro la sinistra, c’è chi sostiene che la strada renziana (o una sua variante) sia inevitabile, e chi pensa che la sconfitta della sinistra sia derivata dall’impossibilità di assumere una prospettiva alla Corbyn. Queste due anime non stanno insieme. Questa tensione, poi, attraversa tutta la sinistra europea”.
L’anima del Pd più critica nei confronti di Renzi ha iniziato a far sentire la propria voce. Lo scorso 13 agosto Elisabetta Gualmini, vice-presidente della regione Emilia Romagna, ha dichiarato: “Fin dalle prossime elezioni regionali il Pd deve cambiare pelle e volto. Anche il nome”. Gualmini, renziana pentita, ha affermato di pensare “a un passaggio di rottura che sia paragonabile a quello di una nuova Bolognina”. Possono bastare il cambio del nome e del simbolo, o il Pd dovrebbe piuttosto mutare il proprio approccio alle policies e al suo bacino elettorale? “Non vorrei che il dibattito sul cambio del nome, o su altre soluzioni simili, sia soltanto un palliativo per evitare una riflessione più seria sulla profonda crisi, di identità politica e culturale, della sinistra” riflette Fasano. ”Questa crisi non si risolve con un cambio di nome, ma cercando di elaborare una nuova cultura. Qualcuno è tornato a parlare di alleanza tra meriti e bisogni. Si tratta di una possibile soluzione, forse troppo razionale in un contesto in cui la politica è vissuta molto di pancia. Bisognerebbe capire come veicolare il messaggio che un’alleanza tra i frequent fliers, che godono dei vantaggi della globalizzazione, e gli abbonati delle Trenord, che soffrono le contraddizioni del mondo iperconnesso, è una possibile chiave di uscita dalla crisi della sinistra. Il problema è lì: anche se domani avessimo un partito che non si chiama più Pd, che policies mette dentro? La sinistra vuole cercare un percorso di riforme che persegua ideali di eguaglianza e giustizia sociale dentro vincoli che fanno i conti con la globalizzazione, o ritiene che in una fase di forte illusione populista dei cittadini sia possibile perseguire i progetti della sinistra radicale?”
“La questione del cambio di nome mi ricorda le vicende finali del Pci” sottolinea Pasini. “Allora era in effetti in corso un cambio epocale. Prima di tutto perché era crollato il muro di Berlino, e poi perché la dirigenza di allora decise di entrare nell’alveo delle liberal-democrazie. Il Pd è la sintesi di due tradizioni diverse: quella appunto socialdemocratica, che arriva dal Pds, e quella della Margherita, un’alleanza di elettorato cattolico (moderato e progressista) ed elettorato laico. L’alleanza del 2007 fra Margherita e Ds fu fatta tenendo la polvere sotto il tappeto. Ora il cambiamento di nome ha poco di interessante. Se cambio nome a una macchina scassata, resta comunque una macchina scassata. Come chiamiamo il nuovo Pd? Partito laburista? Partito social-democratico? Quei partiti in Europa sono alla frutta. Oggi, tra l’altro, stanno emergendo nuove fratture che non sono più ricomponibili sull’asse conservatorismo-progressismo. Non è certo col mutamento del nome o con quello di una piccola leadership che si può cambiare il corso delle cose, dal punto di vista della politica. In assenza di un’agenda chiara e di credibilità (altro grosso problema del Pd), bisogna prendere atto della non sintonia con il Paese. Il partito, certo, non deve assecondare i sondaggi o gli umori degli elettori. Bisogna anche tener presente che le forze progressiste sono strutturalmente in crisi perché dopo la realizzazione del welfare non hanno più nulla da dire. Una volta raggiunti i diritti sociali, la sinistra si è buttata sui diritti civili, su quelli culturali. Le forze progressiste hanno poche idee da presentare all’elettorato, mentre le altre riescono a dare delle risposte a una domanda politica rispetto ai temi della sicurezza, dell’ordine, dei confini. Esiste una difficoltà strutturale della sinistra, che non riesce a stare al passo coi tempi”.
E allora, quale dovrebbe essere la nuova cultura politica del Pd? Per rispondere, bisogna partire da alcuni presupposti. “Il problema dell’identità politica oggi è molto importante” afferma Pasini, “anche perché c’è un problema nelle democrazie occidentali: i partiti politici oggi hanno una funzione molto meno rilevante rispetto al passato. La modellazione delle preferenze non passa quasi più attraverso i partiti, che oggi sono dei contenitori più o meno vuoti che si presentano alle elezioni e competono. Dal punto di vista dell’elaborazione delle politiche pubbliche, il partito politico non conta più nulla. Il partito non è più soggetto intermedio tra società civile e istituzioni”.
“Questo nodo va sciolto una volta compreso che le promesse fondamentali della democrazia rischiano di fallire perché erano sbagliati i presupposti su cui si fondavano, ossia sull’idea di cittadini informati, consapevoli, critici, che avrebbero sempre scelto le politiche che erano più chiaramente a favore dei lori interessi. Bisogna fare i conti col fatto che la democrazia può produrre degli effetti perversi. Detto ciò, resto dell’avviso che ricostruire un’alleanza tra vincenti e perdenti della globalizzazione possa essere uno dei temi. Penso che serva una sinistra capace di ricongiungere il popolo con il livello di governo, e forse l’unica strada percorribile consiste nel rimbastire i fili di una partecipazione consapevole dei cittadini al gioco politico. Oggi la gente non guarda quasi più alle decisioni e all’efficacia di governo, ma guarda a forme di partecipazione, anche apparenti, che però diano lei almeno l’illusione che ci sia una maggiore sintonia fra governanti e governati. Bisogna cercare di ricostruire fiducia nella politica. Non credo a soluzioni che guardano solo nella direzione di chi sta peggio. Serve anche rivolgersi a ceti che sperimentano contraddizioni nella società globalizzata, ma che hanno capacità di dare un contributo fattivo importante. La sinistra non ha sempre guardato gli ultimi, e comunque non avrebbe senso tornare alla logica degli ultimi. Ho la sensazione, comunque, che la sinistra debba quantomeno tornare a pensare. La società globalizzata ci sta mettendo di fronte a un problema di integrazione sociale che è forse di proporzioni maggiori rispetto a quello che abbiamo vissuto con l’avvento della società industriale. Qual è la soluzione che la sinistra vuole fornire a questa questione? Ciò, però, presuppone una capacità di impegno nella riflessione che ora è del tutto assente. La classe dirigente” conclude Fasano “della sinistra non comprende che il problema si pone a quel livello lì”.
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