Partiti e politici
Gli anni che passano, in questo tempo che non conosce l’alternativa politica
Quando finisce un anno si dice che è tempo di bilanci. Quando ne inizia uno nuovo, contestualmente, si parla invece dei bisogno di fare progetti. Si guarda indietro, per valutare, e subito dopo avanti, per fare altro, o meglio. È un esercizio che la convenzione del 31 dicembre rende rituale e doveroso, anche in un tempo ostile all’analisi e all’autocritica, e favorevole alla polarizzazione che autoassolve e al disegno monolitico del nemico che legittima gli istinti peggiori. A complicare ulteriormente questa buona pratica è il radicarsi e consolidarsi dell’idea che l’alternativa all’esistente sia peggiore, oppure impossibile, nel pendolo schizofrenico di società e classi dirigenti ora rassegnate al presente “meno peggio”, ora espressione rabbiosa di vittimismi e complottismi.
I due poli, è appena ovvio, sono in realtà vicini di casa nel grande quartiere dell’immobilismo e dell’indifferenza. Il tempo ormai lontano in cui la politica di ogni colore si immaginava riferimento e terminale di un’idea di società e di stato, di economia e di relazioni strutturali e internazionali, approfittava delle “feste comandate” per guardare alla salute del mondo – la si chiamava “situazione internazionale” – per poi via via scendere su territori più prossimi a quelli nei quali ogni mattina ci si alzava, si lavorava, si viveva, si soffriva e si amava. Per quanto fuori tempo e fuori moda, è l’unico modo che conosco per analizzare il tempo politico che viviamo, e quindi ci proverò, complici appunto l’anno che finisce e quello che comincia.
L’anno che se ne va lascia in eredità a quello che inizia un mondo rassegnato all’inevitabilità della guerra, sostanzialmente a disposizione della violenza nazionalista, incapace di trovare le risorse morali, diplomatiche e politiche che servono a pensare che la pace può esistere, a patto di rinunciare a qualcosa: foss’anche qualcosa di giusto. Le atrocità compiute da Hamas il 7 ottobre e la brutale rappresaglia messa in atto da Israele a partire dalle settimane successive, hanno consolidato l’idea che anche ciò che era oggettivamente diverso possa e debba venire riconsegnato al sanguinoso ciclo del “sempre uguale”. Cambiano in peggio le proporzioni, aumentano cioè i morti, ma la catena di azione, reazione, e gli argomenti portati a difesa della prima o della seconda, invece, non cambiano mai. Così, se nel 2022 ci eravamo detti che eravamo sconvolti per una nuova guerra “alle porte dell’Europa”, quella agita dalla Russia contro l’Ucraina, entriamo nel 2024 dichiarandoci attoniti per l’infinito ritorno di una guerra che esiste da prima ch’esistesse Israele. In un caso e nell’altro, la nostra Europa sembra aver creduto – e forse, cinicamente, a ragione – che non poter avere una linea comune sia una grande risorsa. Ogni paese fa e dice quel poco che può, per il niente che vale, e il nostro piccolo regno di diritti imperfetti e di democrazie fragili continua a reggere magnificamente il confronto. Finché dura, naturalmente.
L’anno che inizia rimette al centro della contesa l’unica democrazia del mondo che ha davvero una qualche voce in capitolo, quella statunitense, che deciderà il nuovo presidente il prossimo autunno. Quel che resta di Joe Biden si confronterà – probabilmente e salvo sorprese giudiziarie che potrebbe dischiudere scenari di ogni tipo – con quel che resta di Donald Trump. Il futuro degli equilibri mondiali passa anche, forse soprattutto, attraverso il destino senile di ogni dominatore, anche il più longevo: quello di smettere di dominare, mentre fa fatica a riconoscerlo.
Quando sapremo chi starà alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni, con ogni probabilità, non si saranno stabilizzate gli scenari né a Mosca né a Gerusalemme. C’è da sperare, almeno, che la fine del galoppo dell’inflazione convincerà le banche centrali, soprattutto quella europea, ad allentare la morsa dei tassi di interesse giunti ai massimi storici da vent’anni, con le ovvie conseguenze sulla vita delle persone. Intanto, il nuovo parlamento europeo – eletto la prossima primavera – servirà soprattutto a misurare le forze interne ai singoli paesi dell’Unione: in particolare, la probabilità che una Le Pen riesca “finalmente” a conquistare Parigi, alle elezioni presidenziali del 2026, e quanto robusta e duratura sia la presa e quanto spedita la marcia di Giorgia Meloni su Roma.
L’anno che se ne va e quello che comincia ci restituiscono, nel complesso, la fotografia di una politica italiana abbastanza “tranquilla”. Farà forse sorridere l’aggettivo, riguardando indietro alle continue polemiche mediatiche, ai casi giudiziari e a quelli politici, alle intemerate del presidente del Senato, ai membri del partito di governo che rivelano segreto nel tinello di casa, ai tiraemmolla sul Mes, ai ritardi sul PNRR, ai va e vieni sul nuovo patto di stabilità, e a molte altre cose serie, ma di relativa importanza. Quel che conta, alla fine del primo anno pieno di governo Meloni, è che la presidente del Consiglio è salda in sella, ha passato tutti i test di affidabilità che la comunità internazionale e finanziaria aveva preparato per lei, ed è riuscita a galleggiare senza troppi guai nella palude romana della politica, che peraltro frequenta da quando ha 14 anni. Ha vissuto la stagione dell’inflazione, e adesso vivrà ragionevolmente quella della recessione: non proprio tempi fortunati, per chi governa, ma tirare a campare è un’arte, e Giorgia sembra conoscerla bene. Del resto, se non è memorabile la sua politica, né le politiche che mette a terra, si può dire che le tre opposizioni presenti, messe insieme, ne facciano almeno una?
Gli ultimi sondaggi ci restituiscono così un quadro chiaro, tutto sommato prevedibile e fisiologico: la popolarità del governo Meloni e della premier in calo, ma il suo partito in crescita a spese di alleati in cerca di improbabili futuri o orfani di irripetibili passati, con le opposizioni divise e, sommate, comunque ferme al perimetro delle elezioni del Settembre 2022. Si fa un gran parlare di riforma costituzionale, ed è anche stato avviato l’iter che – nei piani della maggioranza – dovrebbe portare all’elezione diretta del presidente del consiglio, il cosiddetto premierato che non esiste in nessuna repubblica europea. Tutto congelato, a livello di consenso, nonostante le fatiche dell’economia globale che si saldano e si innestano sugli storici ritardi di un paese che ha perso tutti i treni passati negli ultimi trent’anni. Tutto stabile, nonostante l’anno finisca con il record di sbarchi di immigrati, e l’ammissione di un fallimento sulla battaglia identitaria per definizione, quella sull’immigrazione. Proprio sul controllo degli sbarchi infatti si erano spese le promesse più esplicite e clamorose a inizio legislatura. Come sempre, quando le cose che succedono sono molto più grandi della nostra volontà e possibilità, le promesse si rivelano insostenibili, e qualche malumore – nella migliore delle ipotesi – inevitabile.
È del resto il destino che ha colpito nell’anno che finisce la mia città, Milano, ed è sicuro che la riguarderà anche nel tempo a venire. Il 2023 che ci lasciamo alle spalle è stato l’anno in cui i fattori strutturali di una città sempre più isolata dal resto del paese sono emersi in maniera prepotente. La concentrazione di capitale economico, finanziario e umano, la maturità dei processi di finanziarizzazione, uniti al ritorno di un’inflazione galoppante e all’aumentare dei tassi di interesse sui mutui, ha reso evidente quel che covava sotto la pelle da un po’: le “super cities”, le città di successo economico al centro dei racconti internazionali e locali, diventano a un certo punto insostenibili per la maggioranza di quelli che ci lavorano, a meno di non poter godere di consistenti quote di rendita. Così, dopo anni di narrazioni macchiattestiche improntate all’ottimismo acritico di un modello peculiare che non è mai esistito, abbiamo assistito all’esplodere di narrazioni di segno opposte, altrettanto imprecise nel loro pessimismo. Per definizione, le questioni complesse non possono ridursi a racconti semplici, che tuttavia sono i più fortunati, in tempi sfortunati. Per parlare seiamente del “fenomeno Milano” bisognerebbe ricordare il tempo lungo nel quale il sistema cittadino ha beneficiato di investimenti pubblici che l’hanno resa l’unica “vera città” europea d’Italia, che è un bene quando chi ci vive puó ad esempio prendere la metropolitana e arrivare ovunque, proprio mentre il resto del paese – nella sua maggioranza – conosceva un lento e inesorabile declino a livello di servizi e sistema produttivo. È stata in parte una decisione della politica, in gran parte il frutto di un’inerzia altrui e dell’assenza di decisioni, che ha finito per concentrare sull’unico posto “che funziona” fiumi di capitale pubblico e privato.
Come sempre, quando succede questo, il capitale ne attrae altro, e altro ne drena. Quello della grande finanza, certamente, ma anche quello del risparmio delle famiglie italiane che comprano da anni e anni buchi di 24 metri quadri a prezzi stellari, e le chiamano “case” per i loro figli, e “investimenti” per se stessi. Che il racconto di Milano degli scorsi anni e l’amministrazione pubblica siano stati consustanziali a questa onda è sicuro ed evidente, ed è una responsabilità politica precisa. Additarli tuttavia come i “colpevoli” di un fenomeno globale, magari brandendo le prove della carenza di piste ciclabili o ricordando qualche penosa campagna di marketing cittadino, è invece facilone, quanto assurdo in termini razionali. Sullo sfondo restano i grandi cambiamenti sociali di un tempo discontinuo. A Milano nei primi anni ‘90 le persone che vivevano da sole occupavano poco più del 30% degli immobili residenziali. Oggi sono quasi la metà, il 48,8%. È un dato che fa impressione, che racconta di una società che cambia, e che impatta ovviamente anche sulle dinamiche immobiliari, sui valori, sui prezzi. Aggiunge complessità a complessità, e sarebbe ora di smettere di cercare semplificazione nel riparo di parole vecchie.
Già, perché infine, tornando sul modesto satellite dal quale abbiamo provato a guardare il mondo da lontano, tra i problemi più gravi di questo tempo non ci sono solo povertà, violenza globale e privata, diseguaglianze, ma la sensazione che a tutto il male dei rapporti di forza non si possa pensare alcuna alternativa.
È la fine della politica, della democrazia, della loro stessa ragion d’essere. È indispensabile ricominciare a pensare che cambiare le cose è possibile, che fare politica è necessario, che un’alternativa all’esistente si dà, a patto di volerla costruire. Non è facile tenere fermo il pensiero, guardando con attenzione le forza in campo. E tuttavia, sforzarsi di pensarlo possibile è il primo passo di un lungo cammino. Se a qualcosa può servire un anno nuovo, è ad augurarsi il coraggio e la forza per le sfide grandi. Questa è una, e parte da ciascuno, da ciascuna.
Grazie, Jacopo, un fiato di postività
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