Partiti e politici
Riparlando di Schlein. Per la sinistra è la soluzione o l’essenza del problema?
A una settimana di distanza, Elly Schlein segretaria del Partito Democratico non è più una notizia. Finita la fase dei racconti resta il tempo e lo spazio per le analisi: un esercizio di pensiero, ricordo, dubbio che serve a utilizzare il passato, recente e remoto, per pensare al futuro del principale partito dell’opposizione di oggi che ha segnato quasi tutte le stagioni di governo dal 2011 in poi. Quante cose ci sono, dentro a Elly Schlein, e alla sua elezione a segretaria del Partito Democratico? Il tentativo di rispondere, una settimana dopo, si intreccia con le prime uscite pubbliche da segretaria, la richiesta al ministro degli Interni Piantedosi di “valutare le dimissioni” dopo le improvvide dichiarazioni seguite alla tragedia di Cutro, la partecipazione alla marcia antifascista di ieri a Firenze. Naturalmente sono due episodi, che non segnano una via esclusiva ne che, tantomeno, descrivono un percorso. E tuttavia sono così coerenti con l’identità di Schlein che ci aiutano a risalire il filo del nostro discorso, e a inquadrare meglio anche la fotografia più grande. Partiamo dunque da qui: da una leadership che si caratterizza, in prima battuta, per una battaglia contro il cinismo politico in materia di immigrazione, e per una manifestazione che – si passi la semplificazione – raccoglie le energie contro le tentazioni neofasciste presenti nella società. Forse per coincidenza, ma sicuramente non per caso, sono i marchi di un inizio di segreteria in nome di un’identità precisa, la stessa identità che ha permesso a Elly di diventare segretaria senza che “la sentissero arrivare”.
L’identità è sicuramente l’architrave portante dell’ascesa di Schlein e, c’è da scommetterci, sarà il marchio di fabbrica del suo Partito Democratico, se riuscirà a modellarlo a immagine e somiglianza del proprio profilo e di quello del nucleo di consenso.
Per provare a mettere questa scelta in prospettiva, tuttavia, l’immagine principale è, e non può non essere, quella della società italiana, dentro alla quale sta quel piccolo spicchio di nazione che in Elly Schlein, per il momento, si è esplicitamente riconosciuta. Una settimana dopo è bene anzitutto partire dai dati, da quelli che conosciamo con certezza, e cioè quelli di quanti hanno votato. I cittadini che si sono messi in coda ai gazebo sono stati quasi un 1,1 milioni. Circa 500 mila in meno dell’ultima volta, quando ad essere eletto segretario con la stessa procedura fu Nicola Zingaretti. Accadeva esattamente quattro anni fa, il 4 marzo del 2019. Per fare un confronto sui numeri assoluti, potremmo dire che Zingaretti – non proprio un segretario che sarà ricordato come indimenticabile, nella storia dei partiti italiani – prese da solo all’incirca la totalità dei voti che Bonaccini e Schlein si sono spartiti una settimana fa. Di mezzo c’è il lungo riflusso e il disamore della società italiana per la politica in generale, e per la sinistra in particolare. E ci sono le scissioni che hanno portato Matteo Renzi e suoi ad occupare altri posti, a tentare altre fortune. Ma il dato resta abbastanza impressionante, e non è facile credere che sia più facile “fare risultato” partendo da una base di convinti sostenitori che, nel complesso, è più piccola di oltre il 30%. Del resto, è stato proprio il rimpicciolirsi di questa base a rendere il Partito più facilmente scalabile da parte di Elly e dei suoi, nonché più fallaci i sondaggi che davano per certa l’affermazione di Bonaccini. Perchè è chiaro che, se le truppe “avversarie” fidelizzate perdono tanti pezzi – e a tacere del fatto che anche molti tra i militanti storici hanno scelto lei – basta un “reclutamento” meno cospicuo di nuovi compagni e compagne di viaggio per trovarsi in testa alla classifica. Una base di partenza più piccola, e fondata su un’identità declinata come molto netta in vari campi, dai diritti civili all’ambiente, dalle diseguaglianze sociali ai temi di genere e all’immigrazione, ha il vantaggio che più facilmente ci si riconosce tra simili che remano nella stessa direzione, ma presenta l’ovvio rischio che i simili siano meno.
Tra i dati che conosciamo, e che dopo una settimana di leadership brillano ancora di più come certezze, c’è che anzitutto la vittoria di Schlein sembra fondata su alcuni dei pilastri della progressiva perdita di contatto tra il Pd e i ceti popolari. O, se preferiamo, della progressiva accentuazione dei tratti di partito radicato nei centri urbani medio grandi e nelle loro aree più centrali e benestanti. Il fatto che sia questa una tendenza globale non rende meno evidente ne problematico lo specifico caso italiano, all’interno di un paese in cui la divaricazione tra città e aree non urbane è sempre più netta, secondo molti indicatori. L’affermazione di Schlein ha gettato i suoi pilastri quantitativi proprio in quei centri cittadini in cui il Pd è già forte, o abbastanza forte, e in cui i diritti civili sono ragionevolmente sentiti come prioritari rispetto a quelli sociali. O nei quali, quantomeno, il problema della diseguaglianza materiale è statisticamente meno urgente, poichè la maggioranza dei diseguali sta altrove. Lo ha notato con buon anticipo Paolo Manfredi su queste pagine.
Allo stesso modo, altrove stanno quanto più facilmente subiscono le retoriche tossiche del razzismo, impastate indistinguibilmente dalle umane e comprensibili perdite di certezze sul presente e il futuro, dentro a territori in trasformazione e a modelli industriali e di sviluppo incapaci di rinnovarsi. Interi pezzi di paese senza più giovani, con non abbastanza competenze per reinventare eldoradi invecchiati in fretta e malamente, e nei quali la maggioranza di quelli che lavorano hanno la pelle di un altro colore. Vista dalla vecchia e nuova borghesia milanese, (wannabe) upper class che si professa internazionale e che magari si racconta cugina di New York o abituè di Shangai è sicuramente più facile da spiegare, e meno problematica, perchè le metropoli che si rinnovano rimuovono più in fretta, o non conoscono proprio, un sentimento in realtà molto politico, quello della nostalgia. Ma là fuori, questa traccia profonda che guarda indietro rimpiangendo – un po’ a ragione e un po’ mitizzando – invece c’è, e ovviamente è più forte in chi ha meno strumenti culturali ed economici, cioè meno futuro.
A molti, e soprattutto a molte, ho sentito dire e scrivere parole di apprezzamento per il messaggio politico portato da Elly Schlein. Per quelle parole chiave che qui ho solo stilizzato, e che vedremo nel tempo prendere concretezza di proposta uscendo dalle acque, che col tempo si fanno sempre meno navigabili, della propaganda. È un bel segno di fiducia nella politica, ma forse è anche una conseguenza di ingenuità rispetto al tempo che viviamo e alla nazione di cui siamo figli. Prima del messaggio, infatti, per quel paese che guarda indietro e che ha paura, che cerca rassicurazioni e antropologie che gli somiglino, finiscono col contare le biografie. La lingua che si parla. La postura. Il senso di empatia che si sa restituire alle altrui debolezze, magari anche alle radici delle proprie grettezze. Qulle di chi guida, quelle di chi ha intorno, quella di chi sarà la sua classe dirigente. È questa la forza naturale di Giorgia Meloni, che ha una biografia – figlia di borgata e di donna sostanzialmente sola – che dovrebbe riguardare alle radici la storia e la missione dei progressisti. È questa la debolezza evidente di Elly Schlein, nata internazionalista e con la camicia, che ormai da un decennio può girare attorno al mondo della politica aspettando che si presenti il varco giusto, una volta europarlamentare col Pd, tendenza (allora) Civati, e oggi sergetaria dopo aver preso la tessera last second. Naturalmente, essere nati figli di benessere e opportunità non è una colpa, ed essere nati figli di fatica e povertà non è un merito. E tuttavia, non è vero nemmeno il contrario. Resta il fatto, sempre più evidente, che tra le tante traversate nel deserto che aspettano la nuova segretaria del Pd c’è quella che porta da un mondo popolato da similə a lei, che per definizione è un mondo piccolo, a quello in cui sta la maggioranza. Quel famoso 99% della popolazione, la grande maggioranza della gente normale, di cui parlava il movimento Occupy Wall Street nel 2011, e a cui Elly si ispirò, allora giovane democratica italiana, guidando due anni dopo Occupy Pd, movimento di protesta più modesto, che aveva l’obiettivo di accusare i 101 franchi tiratore che non permisero a Romano Prodi di andare al Quirinale.
Non sarà sicuramente per una riconoscenza tardiva che proprio Prodi, oggi e ieri, è stato tra i sostenitori della candidatura di Elly, così come, appena qualche anno fa, furono alcuni suoi fedelissimi a sostenere in Emilia Romagna le sardine, rivelatesi decisive nella mobilitazione che ha portato a rieleggere Bonaccini a governatore, che sembrava minacciato dall’ascesa di Salvini e della sua Lucia Borgonzoni. Al termine di quell’operazione ci fu appunto la vicepresidenza regionala affidata appunto a Schlein, e lo strano tandem che la vide affiancata al presidente di regione che poi sfidò – è storia di adesso – per ottenere la segreteria di cui stiamo parlando. Non sarà riconoscenza, quella di Prodi, mentre sono sicuramente frutto dell’intuito del navigatore esperto le scelte di Dario Franceschini – si dice guidato dalla moglie Michela Di Biase, parlamentare del Pd e data per vicinissima a Elly – e Andrea orlando, che hanno messo per tempo le loro fiches sulla vittoria di Schlein. Però certo sono un altro tassello – per oggi l’ultimo, non temete – che costruisce il senso di un mosaico zeppo di difficoltà, in cui si torna, in fondo, al punto di partenza e alle domande da cui inizia il viaggio. Chi è davvero la leader politica Elly Schlein? Quanto può, sa, vuole, oggi e domani, lasciare le terre che hanno generato la piccola vittoria di una settimana fa per costruire la complicatissima opportunità di domani e dopodomani? Non parliamo per ora dei rapporti con gli alleati, se ci saranno, e quali, nè dei tanti nodi programmatici veri che a un certo punto dovranno essere declinati, anche stando all’opposizione. Di buono, per lei, c’è che il tempo – almeno in teoria – non manca. Il primo appuntamento elettorale, le europee del 2024, sono tra più di un anno, e quello europeo è un voto tradizionalmente amico del voto di opinione, che spesso ha premiato le mobilitazioni urbane che sono la sua forza naturale. Inoltre, gli ultimi benchmark disponibili sono tutt’altro che esigenti, e fare meglio dei Pd ai minimi storici di Renzi e Letta non sembra così difficile. Poi però c’è tutto il resto, il tempo che abbiamo davanti e a cosa serve dirsi ed essere progressisti se la maggioranza dei poveri vota qualcun altro. Non è una questione solo italiana, anzi, e lo ripetiamo ancora una volta. La domanda che però resta riguarda esattamente il profilo di Schlein e quello che politicamente rappresenta, il mondo che si porta dietro e quello che la sostiene. E dunque, “Elly” è un tentativo di soluzione, o l’essenza del problema? È il ponte che riporta un partito di sinistra nel suo mondo, o l’ultimo arrocco che la chiude in un possedimento sempre più piccolo, e sempre più esclusivo? Non serviranno i posteri, se può consolare, per ipotizzare con qualche certezza una sentenza.
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