Partiti e politici

Draghi delude chi voleva il dreamteam: vince la politica e la Lega di Giorgetti

12 Febbraio 2021

C’è tutto il “Draghi politico”, l’uomo cresciuto a Roma, che poco più che nel mezzo dei quarantanni già dirigeva il ministero del Tesoro, nel governo da poco nominato. La decisione – evidente – è stata quella di non umiliare la politica, di non commissariare i partiti, ma anzi di chiedergli una piena condivisione di responsabilità. Un governo fatto per durare fino a fine legislatura, dirà qualcuno, e magari per gettare le basi per uno o più laboratori politici per la politica che verrà. Oppure si potrebbe argomentare anche il contrario: un governo fatto per costruire, da subito, la maggioranza necessaria a eleggere il prossimo presidente della Repubblica, successore di Sergio Mattarella, proprio nella persona di Mario Draghi. Presto per dirlo, che il corso delle cose – lo abbiamo visto anche in queste settimane – è sinuoso e improvviso.

Una cosa, invece, è certa: Draghi ha messo persone di assoluta fiducia nelle caselle cariche di deleghe pesanti, e per il resto ha usato un manuale politico  che – se non fosse Mario Draghi, il presidente – tutti attribuiremmo senza troppe prudenze a Cencelli, il politico diventato famoso per aver creato appunto un bigino fatto apposta per distribuire poltrone in modo proporzionale alla forza parlamentare dei partiti che compongono la maggioranza. Partiamo, dunque, dai nomi di assoluta fiducia del presidente del Consiglio, e che godono sicuramente anche della piena stima da parte del presidente della Repubblica. Ci sono sicuramente i tecnici più vicini a Draghi e Mattarella. Daniele Franco, una vita in Bankitalia, per anni al fianco di Draghi, sarà una sorta di prolungamento del premier nei palazzi del ministero dell’Economia. Una sintonia solida e antica, di quelle che si riconoscono alle persone di cui si può dire, a terzi: “Parlane con lui, è come se ne parlassi con me”. Discorso analogo vale sicuramente anche per il sottosegretario in pectore alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, magistrato che ha maturato lunga esperienza nella tecnocrazia ministeriale. Simbolici, ma non certo irrilevanti, i nomi di Roberto Cingolani, al ministero per la transizione ecologica, e di Vittorio Colao, alla transizione digitale. Sono ministri senza portafoglio, che siederanno però al centro di molti snodi cruciali per il futuro del paese. Avranno lo spazio e il modo di gettare semi di futuro, o resteranno ai margini di un discorso politico che si giocherà altrove? Lo vedremo. Chi invece non resterà ai margini, ed è una certezza, è Giancarlo Giorgetti. Tra i grandi fautori della nascita di questo governo, l’uomo che ha spinto Salvini a una conversione a U tanto rapida da disorientare un po’ tutti, si metterà a capo del ministero dello Sviluppo Economico. Un ministero pesantissimo, sopratutto in vista degli ambitissimi miliardi del recovery plan. Tra i politici di professione ancora in pista, peraltro, Giorgetti è uno tra i pochi accreditato di un solido e diretto rapporto personale con Draghi, cementato dalle comuni conoscenze e amicizie con i decani della finanza cattolica milanese e lombarda, a cominciare da Giuseppe Guzzetti. Il suo ruolo è stato chiave nella nascita del governo ma, c’è da scommetterlo, sarà fondamentale anche per il prosieguo del cammino dell’esecutivo. Perchè, tecnici a parte, Draghi di lui si fida, e non  a caso gli ha affidato un ministero così centrale. Tra i tecnici, e per concludere, ci sono nomi scontati, come quello di Marta Cartabia alla giustizia, per trovare un equilibrio tutto istituzionale dopo il giustizialismo di Bonafede, ed Enrico Giovannini, alle infrastrutture. Interessante, anche questo nome, perchè è di uno dei più attenti osservatori e studiosi della transizione ambientale, ma destinato a un ministero “sviluppista” come quello delle infrastrutture. Resta al suo posto infine Luciana Lamorgese, un piccolo pegno simbolico da far pagare al capitano Salvini che torna da uomo forte in maggioranza. Nota di sicuro merito, per conto di chi scrive, i nomi scelti per l’istruzione e la ricerca: Patrizio Bianchi e Cristina Messa, persone davvero esperte e competenti. Speriamo che resistano all’onda d’urto della burocrazia ministeriale e territoriale, e riescano a far fruttare al meglio le tante risorse delle scuole e delle università italiane.

Poi ci sono i partiti, e i loro nomi. Qui c’è poco da dilungarsi, in realtà, se non per notare assenze, assonanze, pesi e proporzioni. E permanenze e ritorni, tante e tanti. Restano Luigi Di Maio a capo della diplomazia italiana, Dario Franceschini a capo della Cultura (una specie di inamovibile: se il Pd va al governo, lui va alla Cultura), Lorenzo Guerini alla Difesa, Elena Bonetti alle pari opportunià (unica ministra renziana, peraltro non parlamentare, quasi plateale la volontà di non riconoscere all’inventore della crisi alcuna paternità sul governo), Fabiana Dadone dei 5 Stelle alle Politiche Giovanili, e Roberto D’Incà ai rapporti col parlamento. Resta al suo posto Roberto Speranza, che quindi gestirà in continuità anche le fasi prossime venture della pandemia. Resta anche Stefano Patuanelli, seppure “declassato” dal Mise all’agricoltura, che fu di Teresa Bellanova. E poi i ritorni. Torna al governo Andrea Orlando, nome pesante del Pd, al ministero del lavoro. E tornano, come nei ruggenti primi anni del duemila, un plotone di forzisti: Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini, Mara Carfagna. Ministeri senza portafoglio, ma che contano qualcosa negli equilibri, e che dicono di una volontà di riconoscere a Berlusconi e alla sua storia una funzione stabilizzatrice. Tutt’altro che marginale, poi, il nome di Massimo Garavaglia al Turismo. Una delle più importanti industrie del paese, anch’essa affacciata sulla vallata piena di latte e miele del recovery plan, per un ministero – lo ha detto chiaramanete Draghi – che avrà un suo portafoglio.

A conclusioni, resta lo spazio per appena qualche considerazione.
La prima: al di là della retorica politica, giornalistica e propagandistica, e nonostante le scelte di persone di fiducia, sembra del tutto inverosimile che queste nomine non siano state oggetto di trattative e discussioni tra i partiti e i futuri vertici del governo. Credete davvero a Brunetta colto di sorpresa dal suo nome, o da Luigi Di Maio che sgranava il rosario in attesa di conferma? Noi no. La seconda, un dettaglio politico: la Lega esprime pochi ministeri, molto pesanti, per le ragioni che abbiamo illustrato. Il capolavoro del “Matteo giusto” è, per intanto, un ritorno al centro della scena del “Matteo sbagliato”. Non a caso, torna con una componente importante la Lombardia al governo. Infine, abbastanza rilevante la presenza femminile, con ministeri importanti, benché lontana dalla parità di genere. Colpisce che, tra le donne incaricate di un ministero, nessuna venga dalle principali formazioni di sinistra. Non è un caso e, visto che c’è un po’ di tempo per pensare e fare, chi di dovere farà bene a pensarci. E a fare.

 

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