Partiti e politici

Dall’Ucraina all’alluvione: la politica scompare, un’emergenza dopo l’altra

21 Maggio 2023

Ogni tanto sarebbe bello parlare solo delle cose importanti. Le cose importanti della vita degli esseri umani, dei cittadini di ogni nazione, specialmente di quelle che hanno per metodo di governo “l’imperfetto migliore possibile” della democrazia.  Nella quale, almeno in teoria, il voto di ciascuno determina in piccola parte un destino collettivo, partecipando con l’atto finale del voto a un percorso che comprende il dibattito pubblico. Sarebbe bello e giusto farlo confrontandosi con franchezza tra idee e visioni del mondo e perfino caratteri e psicologie differenti, facendolo tuttavia “in tempo di pace”: non sommersi dall’onda di un’emergenza, ma essendo anzi, piuttosto, pronti ad affrontare le emergenze che si presentano con coscienza e conoscenza.
Questo, naturalmente, è il libro dei sogni. Poi c’è la realtà, e quella dell’ultima settimana della politica italiana, e dei giorni che abbiamo davanti, illumina – si fa per dire – una distanza sempre più profonda tra ciò che dovrebbe essere, e quello che invece è.

Partiamo, per la forza delle cose, dal disastro che ha investito l’Emilia Romagna – la Romagna in particolare – con l’alluvione che ha provocato 14 morti e diversi miliardi di danni. In queste situazioni, sempre uguali, si ripete un rituale politico-mediatico che ormai potremmo descrivere nel dettaglio ancora prima che il disastro si verifichi. La gran parte del racconto giornalistico è occupata – giustamente – dalla cronaca della tragedia. Non appena c’è uno spiraglio nel cielo, il tasso di tragedia cala e invece cresce – come a riempire i vuoti – il racconto dell’eroismo e dell’operosità delle popolazioni flagellate che, da subito, si rimboccano le maniche e iniziano a spazzare via il fango, a sgomberare le strade di detriti e a rialzare muri, argini, case, scuole e ospedali. È successo ovviamente anche questa volta. Naturalmente è giusto raccontare ed elogiare chi con coraggio e determinazione ha messo ogni forza per sanare ferite freschissime e consentire alla vita di ripartire al più presto. E tuttavia, come ogni volta che si attiva un elogio della società civile e della sua capacità di sistemare un disastro, c’è il rischio non marginale di dimenticare le responsabilità collettive, pubbliche e private, che quel disastro hanno favorito o addirittura provocato.

In questo fragente, soprattutto l’informazione televisiva ha in effetti dato poco spazio a due fattori che sicuramente meritano di essere indagati e portasti a conoscenza di una società adulta: il cambiamento climatico provocato dalle attività umane, e l’incessante attività di costruzione innfrastrutturale e urbana che rende i territori più fragili ed esposti a far diventare catastrofici eventi climatici estremi. Come si vede bene, i due fattori – uno ampio e globale, e uno più specifico e locale – sono connessi, ed entrambi discendonno dalle decisioni di lungo e medio periodo prese dalle autorità governative e politiche. Il peso di queste ultime, nella discussione pubblica e politica sia durante l’emergenza, sia – tanto più – quando l’emergenza sembra lontana, è sempre marginnalizzato nei dibattiti e nei programmi politici. Dargli centralità significherebbe spiegare con pazienza che certi eventi non si possono del tutto evitare, e certi rischi non sono eliminnabili, ma sono mitigabili. Ovviamente bisognerebbe spiegare al meglio i costi delle decisioni, ma anche far capire meglio che non decidere, magari non rinunciare, comporta costi molto più elevati nel medio e nel lungo periodo. Invece, non appena qualcuno pone le questioni che contano e magari indica nel consumo di suolo un problema cui porre rimedio si sente bollare come membro del “partito del no” e nemico di progresso e sviluppo. Il refrain peraltro riguarda più o meno tutte le forze e gli schieramenti politici, e il massimo della dialettica politica – sul tema – è rinfacciare, da destra, al centrosinistra di governare da decenni in Emilia Romagna senza aver messo mani e testa a un modello di sviluppo problematico e potenzialmente distruttivo. Il che è ragionevolmente vero, e meriterebbe un vero dibattito, se non fosse che a lanciarlo per puro spirito di contrapposizione è chi, se governa, ha in testa esattamente gli stessi modelli, buoni per gli anni Cinquanta del secolo scorso.

L’assenza di un dibattito serio, del resto, riguarda in maniera altrettanto evidente e non meno problematica altre questioni vitali per una società democratica. Pensiamo a come il tema della guerra, delle risorse destinate allo sforzo bellico e più in generale al posizionamento geopolitico dell’Italia, è rientrato prepotentemente al centro della scena da oltre un anno a questa parte, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Di settimana in settimana, registriamo la totale assenza di discussione politica e parlamentare, e la cosa colpisce particolarmente adesso che, a capo di maggioranza e opposizione, ci sono due donne, due leader, che hanno avuto posizioni dissonanti rispetto al mainstream atlantista. Sia chiaro, non è qui in questione quale dovrebbe essere, almeno secondo me, la decisione di fondo dell’Italia – dalla parte di chi è stato invaso e violato, senza alcun dubbio – ma le modalità di quel sostegno, e le prospettive lungo le quali si lavora perchè la guerra finisca. Questo non succede e così – al termine di una settimana iniziata con la presidente del Consiglio che al raduno degli alpini, a Udine, ipotizzava la riapertura di un servizio di leva militare – finisce con la stessa presidente che apre all’ipotesi di partecipare all’addastramento dei piloti degli aerei F16 al fianco dell’alleato americano, che continua a sostenere una guerra difensiva giusta, i cui effetti negativi potrebbero tuttavia dispiegarsi appieno lontano da Washington e nel cuore dell’Europa. È lo stesso alleato americano che chiede – e ottiene – che l’Italia esca dall’accordo commerciale con la Cina denominato “la Via della Seta”, e siglato dal primo Governo Conte, quello dei gemelli diversi Salvini & Di Maio. Non se ne parlò davvero allora, e non se ne parla davvero neppure oggi. Eppure, per l’Italia di domani e di dopo, sapere in che modo ci si rapporta alle due principali potenze economiche del mondo, cioè gli USA e la Cina, sarebbe fondamentale. A patto, naturalmente, di avere a cuore le prossime generazioni e non, come diceva il saggio, le prossime elezioni.

Le prossime elezioni invece contano sempre di più. E le primissime sono la prossima settimana, al momento dei ballottaggi delle elezioni amministrative. Sei milioni di italiani erano chiamati al voto, circa il 13% degli aventi diritto, su territori non omogenei, convocati per scegliere i loro sindaci. Chiunque, con un po’ di serietà, dovrebbe osservare che non è un test significativo dal punto di vista politica, nè per chi governa nè per chi fa opposizione. Notarlo, e farlo notare a politici che invece rivendicano – tutti, come ai vecchi tempi – di avere vinto, sarebbe appunto il minimo dell’igiene. E invece no. Il primo round ci ha già regalato valutazioni sulla salute del governo, o del nuovo corso del Pd, della crisi dei 5 Stelle o del terzo polo (la prima politica, la seconda di nervi). Parlare di niente, del resto, è sempre meglio che parlare della vita, ed è coerente con la postura di fondo di chi, in realtà, non ha effettivamente niente di intelligente da dire.

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