Partiti e politici
Concludendo: l’italiano, al fondo, è un povero stronzo di potere
Dunque, governo. Con questa storia (ancora nobile?) che da noi tutto si crea e tutto si distrugge in Parlamento, la forma istituzionale per lo meno è salva. Per la decenza, se ne può discutere. Come sempre, i numeri illuminano caratteri e patologie delle persone. Li definiscono al millimetro. Quando si vota, poi, sono inflessibili. Ma anche tra un voto e l’altro, con l’arte dei sondaggi sempre più precisa, i numeri indagano quel territorio fragile e mutevole che è la formazione del consenso. Da sempre, uno degli argomenti più dibattuti, ch’ebbe proprio in Berlusconi, la sua discesa in campo nel ’94, le famose televisioni, il centro di un dibattito furioso che non si è mai assopito (semmai si è assopito Berlusconi, ma questa è un’altra storia).
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Il carattere di eccezionalità di questo nuovo governo non ha bisogno di ulteriore sottolineature. È eccezionale in ogni sua parte, nell’impatto (dis)umano che ne ha definito la storia, nelle convenienze a tratti rivoltanti che ne hanno determinato la formazione, nel perimetro assai elastico delle coerenze personali e collettive. Ma di veramente eccezionale, questo nuovo governo ci consegna un aspetto della nostra identità che a noi pare decisivo per capire meglio, e sino in fondo, l’anima di questo nostro Paese: l’italiano, al fondo, è un povero stronzo di potere. Questa forma così assertiva non vive naturalmente su ipotetiche simpatie politiche dello scrivente, né scaturisce da quella letteratura, ancorché estesa, sull’italica arte di arrangiarsi. No. A questa semplice ma incontrovertibile conclusione, su cui peraltro avevamo già forti sospetti, ci arrivano proprio i numeri.
Il giorno 2 agosto, quando Salvini non ha ancora fatto scoppiare il caos, un sondaggio Winpoll per il Sole 24 Ore crea un certo scalpore: il 72% degli italiani vuole elezioni anticipate, vuole mandare a casa Conte e tutto il cucuzzaro. Segue di qualche giorno una rilevazione Tecnè che già andava nella stessa direzione, ma con numeri leggermente meno “scandalosi”. Fatto sta che secondo gli istituti demoscopici, il Paese è in subbuglio. A questo subbuglio, naturalmente, non partecipano i Cinquestelle che sanno perfettamente che il ritorno alle urne provocherebbe un terremoto interno, con grande spargimento di sangue. Lo straordinario paradosso è che gli italiani anticipano Salvini, e forse lo fottono anche, facendogli credere che la mela proibita sia lì, a un passo. Il nostro ci casca con tutte le scarpe, e neppure una settimana dopo bussa dal presidente del Consiglio per presentargli il conto finale. Come finisce, lo sapete tutti. E siamo a oggi, mercoledì 28 agosto. Sono passati appena 26 giorni da quel sondaggio “definitivo” del Sole 24 Ore e ancora meno dalla decisione di Salvini di far saltare il banco. Questa volta, a sondare gli umori degli italiani è la Ipsos di Pagnoncelli per il Corriere e il risultato è sconvolgente. A considerare necessario un ritorno alle urne è appena un italiano su tre, uno striminzitissimo 33%.
Conclusione: nel giro di appena 26 giorni, un quaranta per cento (!) di elettori si è rimangiata l’anima barricadera per assestarsi placidamente sotto le frasche rassicuranti del Conte-bis. Un’intera parte di popolo che trasmigra e porta le chiappe al sicuro. Che cosa può essere successo?
Volendo, si può tranquillamente attingere dalla letteratura spicciola che pure in certi momenti assume forme di esilarante comicità. Per cui, sentire interi gruppi di cittadini che oggi ripetono le formulette opportunamente inoculate dal potere quando impone la sua nuova forma di vita. Si può andare dall’”esigenza di dare stabilità al Paese” al “senso delle istituzioni” sino a un più definitivo “fermare la deriva fascista e razzista”. In realtà, più che guardare ai fenomeni esterni, che sono un comodo ombrello protettivo, potremmo agevolmente cercare la spiegazione dentro di noi. Nel caso di questa crisi, sino a che le condizioni generali ci hanno tenuti in una indistinta terra di mezzo, l’idea di mostrarsi risoluti cittadini in cerca di una soluzione definitiva ci è molto piaciuta, sino, appunto, a immaginare di tornare alle urne. Riprendersi in mano il proprio destino, insomma, dire basta a orrende formule di laboratorio, a esperimenti di genetica politica. In quel momento, sentirsi cittadini senza appartenenza, su cui nessun partito, neppure il proprio avendone uno, avrebbe potuto esercitare la minima potestà. Una forma ribellista e partecipata che ci ha fatto sentire evidentemente dalla parte opposta di una certa nomenclatura, dalla casta universalmente detta. Quando però ha cominciato a formarsi un orizzonte diverso, seppure nebuloso e poi dichiaratamente osceno, il cittadino ha sentito il peso di una solitudine, la disabitudine a ragionare solo con la sua testa. Prendiamo i sostenitori del Partito Democratico, i quali, per cultura e profondità, in teoria avrebbero dovuto rigettare per primi l’indecorosa accozzaglia giallo-rossa. Il tornare al Potere in qualche modo ha affascinato, anche in questa visione perversa, con la solida giustificazione, da offrire a sé stessi e al mondo esterno, che lo si faceva per un bene superiore. Si beveva l’amarissimo calice in nome e per conto di tutti gli italiani di buona volontà. Una visione salvifica, che comprendesse etica, sensibilità e anche, questa la parte terribile, un sacrificio personale.
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A rimetterci è la nostra reputazione. Questa giravolta politica – il quaranta per cento che cambia idea in meno di una settimana – difficilmente la potremo inserire nella chiacchiera sulla ben nota arte di arrangiarsi degli italiani. Questo è il curvone a U che definisce un giorno zero, un cambio di prospettiva. A nostro modesto avviso, un grande giorno, in cui finalmente esultare per la riscoperta di un valore che credevamo perduto: l’italiano medio è un povero stronzo di potere. Che rimette la dibattuta questione dei principi e degli ideali al posto che merita. In soffitta.
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