Come comunica il leader, in quattro interviste
C’era una volta il politico. Quello ben accomodato sulla sua poltrona, anche quando era incalzato dalle domande di un giornalista agguerrito. Il politico le cui parole erano dirette soprattutto ‘ai suoi’, e per riflesso alla parte avversaria. Il politico sicuro di sé, che non negava il proprio potere, si muoveva tra alleanze, congiure, nemici. Razionale, imperturbabile, calcolatore.
È il 1989: uno studio grigio, telecamere fisse, sfondo neutro e il volto del politico intervistato proiettato dietro un Giovanni Minoli martellante. Il programma è Mixer e la politica dei corridoi e dei congressi è al centro di una lunga intervista a Bettino Craxi, alla vigilia di una rielezione plebiscitaria come leader del suo partito: «La leadership è un metodo di lavoro. Il mio partito non è né anarchico né monarchico». Un Craxi riflessivo si muove fra le domande, senza negarsi e senza esporsi, restando sempre nel campo della politica. Mai sopra le righe, mai sotto.
«A quel tempo io ero già al potere» affermava candidamente Andreotti: il programma è sempre Mixer, l’anno è il 1993 e Andreotti sta raccontando uno dei suoi aneddoti; poi spiega: «…il potere vero è il contatto con l’opinione pubblica» (e, si sa, logora chi non ce l’ha). Un dialogo duro ma pacato quello tra il giornalista che non risparmia sulle domande (anche personali) e sulle richieste di chiarimento.
Scoppiata la bomba di Tangentopoli, per un qualsiasi politico comunicare il proprio ruolo non doveva essere facile. Eppure quel ‘contatto a distanza’ con l’opinione pubblica – che è un pubblico con un’opinione – stabilito con frasi didascaliche e ragionamenti complessi costituiva l’essenza della comunicazione politica. In una prima Repubblica in cui i partiti esistevano con e per i propri leader. Grigio lo studio di Mixer, pochi i sorrisi di Craxi e Andreotti, reciproco il rispetto dei ruoli fra chi ha l’obbligo di chiedere e chi ha quello di rispondere.
Lo studio è lo stesso, ma nel 1994 cambia tutto: c’è un uomo nuovo su quella poltrona, e c’è un giornalista diverso su quella opposta: «Lei, dottor Berlusconi, ha vinto le elezioni presentandosi come un prodotto confezionato dal marketing», esordisce Minoli in un’intervista che presto diventa un braccio di ferro. C’è, anche se non è visibile, un muro tra i due a colloquio: l’aspirante Presidente del Consiglio che non risponde quasi mai alla domanda, il giornalista che rivendica il suo ruolo e attacca. L’oggetto dell’intervista è la persona, non la politica.
Qualcosa è cambiato: tutto. Le strutture e i partiti sono polverizzati, c’è un ‘movimento’ che suona come l’incitamento ad una squadra di calcio (“Forza Italia!”), finanziato da un imprenditore. Lui vuole “il potere”, ma nega di volerlo e la parola stessa è diventata un tabù, sostituita da termini mitigati: servizio, disponibilità, gestione. Verso la fine dell’intervista Berlusconi alza i toni: parla non più a chi ha di fronte ma a chi sta all’altra parte dello schermo, viene interrotto e reagisce: «Mi consenta, Minoli, di fare almeno un po’ di campagna elettorale, altrimenti cosa sarei venuto a fare qui?». Il dialogo, mai decollato, finisce così: con una negazione di fatto, dei ruoli reciproci: quello del politico e quello del giornalista. E con un messaggio diretto ad un ‘pubblico’. Un pubblico – Berlusconi lo sa bene – senza più opinione.
Decaduto il Cavaliere, siamo al post-moderno della comunicazione politica in Tv. O meglio, della comunicazione e basta. Perché della politica ‘parlata’, di alleanze e di nemici, di strategie si è smesso di discutere: «A me interessa portare a casa il risultato» è la frase centrale di Matteo Renzi, premier e segretario, a dialogo con Fabio Fazio l’11 ottobre 2015. Lo studio è diventato rosso, la regia è più elaborata e il tono tra i due dialoganti è ormai informale. Ogni domanda un argomento diverso, ogni risposta un piccolo resoconto di una riforma o di un provvedimento. C’è un Presidente del Consiglio in carica che elenca fatti e parla alla Nazione. E c’è uno schermo tra lui e il pubblico che si è fatto più sottile a colpi di tweet e post su Facebook.
Ancora una volta è cambiato tutto. Qualcuno parla di continuità rispetto alla fase berlusconiana, ma in realtà, anche se gli anni passati sono pochi, il tempo sembra aver corso ad un ritmo dieci volte superiore. La sensazione è quella di essere al centro di una rivoluzione in cui persino le riforme – che in realtà sono un groviglio di leggi complicate – hanno un nome-slogan che le semplifica e le rende comunicabili, come “La Buona Scuola”. Il politichese è stato risucchiato nel vortice della pura comunicazione. Menomale, forse. L’importante è che non si porti dietro anche la politica.
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