Partiti e politici
Cent’anni di inquietudine
Con la scissione dal Partito socialista di Filippo Turati e l’ala massimalista di Giacinto Menotti Serrati, un gruppo di dirigenti guidati da Antonio Gramsci, Umberto Terracini e Amadeo Bordiga dà vita, con il XVII Congresso, al Teatro Carlo Goldoni di Livorno, del 21 gennaio 1921, al partito Partito Comunista Italiano, che diventerà il più forte d’occidente e caratterizzerà la storia politica della nazione, fino alla svolta della Bolognina, nel 1989, e col cambio, in seguito, del nome in Pds. E, sin da subito, si rivela una forza politica in continuo divenire, incapace di darsi un’organizzazione moderna e un ruolo identitario di riferimento, pur diventando un partito di governo, fino a diventare quello che è oggi, il PD: una formazione genericamente progressista che si è lasciata alle spalle una cultura specifica ed eminentemente di sinistra. Pertanto, a esser precisi, un centenario del PCI, di fatto, non esiste. Il PCI si è fermato il 3 febbraio del 1991, quando appunto, divenne altro da se stesso, ossia il Pds.
Quando, nel 2007, è diventato il PD, con il suo fracasso amplificato, tipico del tempo, distante da qualsiasi istanza ideologica, è riuscito nell’impresa di trasformare una consistente fetta della popolazione, romantica, emotiva e fiduciosa nel riscatto dei valori universali della sinistra democratica, in un elettorato passivo e disincantato. All’interno della sua struttura partitica, oggi, non vi pullulano laboratori politici per l’applicazione moderna e dinamica dei valori democratici, o studi di settore per porre rimedio ai problemi del paese, come per esempio ridurre la disoccupazione e incentivare l’economia, ma cricche separatiste e assetti organici in disputa tra di loro, il cui atteggiamento concitato e così poco riflessivo rimane un punto interrogativo inconcepibile, proprio perché relativo alla classe dirigente di un partito che, in passato, si predisponeva al dialogo meticoloso e alle proposte di contenuto. Nei sofismi costruiti a sostegno dell’evoluzione dell’organismo partitico, nel linguaggio patetico della demagogia speculativa e nei proclami astiosi degli scissionisti, il Pd si presta a essere concepito come un involucro di speranze deluse, privo di qualsiasi slancio che possa conferirgli un ruolo di consistente oppositore della devastazione destroide e populistica.
L’imperativo categorico diventa, dunque, l’impegno unilaterale di una politica di forma e sostanza che dia una ben ponderata e precisa identità a un partito perpetuamente in trasformazione, che ha tranciato in scioltezza ogni legame col passato più glorioso e significativo, tanto che una qualsiasi posizione morale di Berlinguer risulterebbe, in questo frangente storico, essergli finanche estranea. Bisognerebbe evitare, invero, che il PD finisca per assumere la forma dell’acqua, adagiandosi alle linee estetiche di qualsiasi contenitore che abbia un peso specifico. Poiché come l’acqua, il PD, una volta passato allo stato liquido e rinunciato a una configurazione solida, avrebbe la necessità di essere contenuto, in quanto risulterebbe delimitato e plasmato da un sistema di potere inclusivo, sì da esistere in una forma incongrua che andrebbe modellandosi agli umori e alla volontà di chi ne dispone. Il Pd privo di P (fosforo) e in versione H2O (acqua) riempie le otri di un apparato di comando, lasciando a secco la pianta dell’ideologia e della coerenza. Sarebbe auspicabile che all’interno del suo ambito decisionale si smettesse di ambire con ossessione a un leader funzionale alle esigenze della medesima classe dirigente, bandendo ogni strategia che possa portare a individuare un’anima e una mente in grado di rappresentare in maniera consona la base ipercritica, maturata a dismisura rispetto al suo apice, sprofondato, ormai, in una sorta di sonnambulismo intellettuale che ha dell’incredibile.
Infine, il PD, un partito originariamente proiettato verso i diritti e le esigenze delle masse, non può, oggi, ritrarsi di fronte alla naturale possibilità di interpretare responsabilmente la tangibile insofferenza popolare. Tanto meno può diventare un deterrente alla voglia generale di neutralizzare il populismo eccedente, mettendosi di traverso sulla strada della logica intellettuale, che ne reclama la più attiva partecipazione. Ecco, perché, alla luce dei cambiamenti epocali, recuperare al servizio della politica di sinistra la voglia, la tempra e lo spessore morale di quegli uomini che diedero vita al PCI, nel 1921, potrebbe tornare utile al PD, nel 2021. Diversamente, cent’anni sono passati invano. Buoni per la storia, non certo per il presente.
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