Parlamento

Non votare non serve

8 Novembre 2016

Ci sono intere tradizioni politiche legate al non-voto. Quella anarchica ne è un esempio: l’astensionismo ne è un elemento essenziale, una sorta di cartina di tornasole che legittima chi è anarchico e chi non lo è. Stracciare la scheda elettorale, per esempio, fa parte di un contesto simbolico che mira a esprimere un rifiuto della delega insieme alle gerarchie che ne derivano. Ma gli anarchici non sono i soli a vedere con favore l’astensionismo, tra le fila democratiche italiane è ancora possibile sentir parlare di “turarsi il naso e votare”. L’espressione è di Montanelli e se viene usata ancora oggi è perché il voto è ancora un’attività spiacevole per molti: una sofferenza, che, a differenza degli anarchici, viene vista però come un dovere.

Oggi, dall’altra parte dell’Atlantico si vota per il (o ‘la’) presidente degli Stati Uniti: e anche se lì gli anarchici sono pochissimi e Indro Montanelli non lo conosce quasi nessuno la mestizia del voto è il vero tema elettorale. Se Trump è impresentabile Hillary comunque fa parte dell’establishment e non convince: è fredda, cinica, addirittura guerrafondaia. Meglio astenersi? I sostenitori di Sanders, primo candidato “socialista” anti-establishment negli States contemporanei, in buona misura sosterranno Clinton (turandosi il naso) altri, percependo troppa distanza tra le loro idee e la candidata democratica, si asterranno.

Al polo opposto l’astensionismo riappare: i neonazisti del KKK voteranno Trump? Probabilmente sì, ma nelle scorse elezioni, quelle dove Obama sfidò McCain, furono in molti nella destra estrema a disertare le urne. Come sopra, un compromesso troppo grande da affrontare.

Il sistema sembra essere ben oliato: chi si sente troppo distante dalle posizioni politiche dei candidati, decide di non votare, allo stesso modo chi mira a far crescere l’astensionismo per mandare un messaggio politico fa lo stesso, si astiene. Ma, politicamente, una scelta del genere a cosa porta?

Prendiamo il caso italiano. Dal 1946 al 1979 l’astensionismo alle elezioni politiche è sempre stato sotto il 10% degli aventi diritto. Nelle nove elezioni successive, da quella del 1983 in poi, il tasso degli astenuti è cresciuto fino al 27% del 2013. C’è stato uno stravolgimento dell’apparato statale? No. C’è stata invece una presa di coscienza del malcontento da parte della politica stessa che con il M5S di Beppe Grillo ha portato le confuse istanze dei probabili astenuti intorno a un nuovo partito politico. Perché la politica gioca anche d’anticipo e i metodi per interpretare l’opinione pubblica esistono anche a prescindere dal voto. Ci sono i sondaggi, le correnti, i voti interni ai partiti e ai movimenti e così via.

Chi non vota non lascia un vuoto politico, il non-voto non farà altro che tramutarsi in un feedback che verrà comunque interpretato e riformulato in un’ottica politica. In Italia lo scontento è confluito in una proposta politica come quella di Grillo e Casaleggio, in Grecia la crisi dei partiti ha portato a una rilettura degli equilibri politici polarizzata agli estremi: fascisti ed estrema sinistra hanno visto aumentare i consensi e hanno “fatto politica” in modo extra-parlamentare. Negli Stati Uniti, in una corsa alla presidenza a soli due nomi, Hillary Clinton ha inseguito l’ala sinistra dei democratici facendo proprie molte proposte di Bernie Sanders. E Donald Trump, allo stesso modo, ha tenuto a bada le fasce estreme della destra statunitense con prese di posizione anti-abortiste e razziste.

In tempi di società iperconnessa e Big Data ci sono sempre più possibilità di leggere l’astensionismo assieme al contesto politico ed economico. Non votare è, a tutti gli effetti, un voto, interpretabile, utilizzabile politicamente da alcune parti politiche e così via. Nello specifico è un messaggio che nel contesto occidentale si unisce agli slogan di Grillo, Trump, Farage, ma anche Salvini, Le Pen, il Partito Pirata e così via. E sarà interpretato di conseguenza.

Ovviamente astenersi è legittimo, ma bisogna considerare le conseguenze. Perché è la democrazia stessa ad essere un sistema fondato sul compromesso: negare questo aspetto non è volere “più democrazia”, ma agire in modo da averne di meno.

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