Ambiente

Guardare ma non toccare. Ecco svelato l’archeoturismo all’italiana

22 Novembre 2018

In Collaborazione con Carolina Megale

 

È solo di qualche giorno fa la presentazione da parte di alcuni esponenti della Lega di un emendamento alla Legge di Bilancio che non ha mancato di creare polemiche tra i rappresentanti del governo giallo-verde.

Cosa genera tutta questa attenzione? Quali sono gli impatti concreti di un emendamento di questo tipo?

Partiamo con ordine.

L’emendamento, che porta numerose firme (16) e che ha come primo firmatario Lorenzo Viviani (laura magistrale in scienze ambientali e una specializzazione in Biologia Marina) prevede una serie di strumenti che mirano alla valorizzazione, anche in chiave di esperienza turistica, dei beni di interesse storico-archeologico che rientrino all’interno di strutture ricettive private.

In particolare, l’emendamento alla legge di bilancio suddivide la funzione di valorizzazione in due differenti commi.

Al primo comma è previsto semplicemente che differenti strutture di natura ricettiva, e più nel dettaglio, i titolari e/o gestori delle strutture alberghiere, delle residenze d’epoca e delle cantine di aziende vitivinicole che offrono servizi turistici, possono stipulare accordi e convenzioni con gli istituti e i luoghi della cultura […] per valorizzare […] beni storico archeologici che rivestono particolare interesse per l’area territoriale.

Gli istituti e i luoghi della cultura cui si fa riferimento nell’articolo sono elencati nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, all’articolo 101: i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali e le strutture espositive e di consultazione.

Questo articolo, in realtà, pur non modificando nella sostanza quanto già in uso nel nostro Paese, ne rivoluziona la prospettiva proponendo un ruolo attivo da parte del privato possessore e/o gestore dei terreni nei quali sono presenti tali beni.

La polemica, infatti, non ha investito tanto questa previsione, quanto piuttosto quella contenuta al secondo comma dell’emendamento alla Legge di Bilancio e che qui si preferisce riportare per intero:

Al fine di contribuire alla valorizzazione dei territori che rivestono interesse storico-archeologico, gli imprenditori agricoli esercenti attività agrituristica in arre di particolare pregio culturale, possono promuovere attività di ricerca archeologica e di scavo sui terreni di cui risultano essere proprietari o gestori. A tal fine, all’imprenditore agricolo può essere rilasciata la concessione di cui agli articoli 88 e 89 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. L’imprenditore agricolo concessionario è soggetto alle prescrizioni di cui al secondo comma dell’articolo 89 del medesimo decreto. L’imprenditore agricolo concessionario può consentire agli ospiti della struttura agrituristica la partecipazione, senza fini di lucro, alle attività di ricerca archeologica e scavo eseguite sui terreni su cui insiste la propria attività, sotto la direzione, il controllo e la supervisione del direttore dello scavo indicato nell’apposita richiesta di concessione. L’imprenditore agricolo concessionario è custode del patrimonio storico archeologico sito nel terreno ove si svolgono le attività di ricerca e scavo.

In poche ore, le previsioni contenute in questo testo hanno portato ad una densa indignazione da parte dei professionisti culturali con articoli dai titoli espliciti “Gli Agrituristi Indiana Jones”, “(Più) Turismo & (meno) archeologia. Per la Lega è importante fare cassa con gli agriturismo” e ad una ferma presa di distanza da parte degli esponenti del Movimento 5 Stelle: “è concettualmente inammissibile l’emendamento […] Il Movimento 5 Stelle riconosce la dignità della professione di archeologo e l’importanza di assicurare una pratica dello scavo stratigrafico rigorosa, che non può essere paragonata a una qualunque attività di svago turistico come il trekking o la preparazione di marmellate”.

Tale indignazione è tutta rivolta alla figura del “turista-archeologo” e all’importanza e alla tutela di beni archeologici che “nell’immaginario evocato” verrebbero così ad essere esposti alla mercé di turisti in pantaloncini ed infradito. Ma l’emendamento prevede una serie di indicazioni che, a quanto pare, non hanno attirato molto l’attenzione di coloro che criticano l’iniziativa.

Primo, il richiamo alla presenza del direttore di scavo ma (soprattutto) secondo, il richiamo agli articoli del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che incardinano la proposta di scavo in un complesso iter burocratico, la richiesta concessione, la cui concreta conduzione impone una sicura competenza scientifica.

La prassi prevede infatti che per ottenere una concessione di scavo debbano essere redatte: un’istanza di concessione; un piano economico dettagliato; una relazione programmatica sulle attività di ricerca previste; una pianta georeferenziata dell’area di scavo; un CV breve del direttore di scavo; un organigramma da cui si evincano ruoli e istituzioni di appartenenza dei membri dello staff e una serie di dichiarazioni di rinuncia al premio di rinvenimento, del proprietario del terreno, del concessionario, del direttore, dello staff, dei partecipanti (su cui sarebbe tempo avviare un dibattito più strutturato). Per non parlare della documentazione scientifica da presentare ogni anno a fine campagna di scavo, a riprova del lavoro svolto.

Fuor di retorica, quindi, i turisti-archeologi altri non sarebbero che volontari che, sotto il coordinamento di un direttore di scavo (che, in quanto archeologo, non permetterebbe mai che si occupino di attività in grado di ledere, anche soltanto potenzialmente, i reperti archeologici) possono partecipare (nelle modalità previste dalle Circolari ministeriali che regolano le attività dei volontari sugli scavi), anche soltanto per qualche giorno, ad un’attività che, ad oggi, è quasi sempre esclusivo appannaggio del mondo accademico.

Non che il testo dell’emendamento debba essere considerato perfetto: in primo luogo il testo prevede che sia “l’imprenditore agricolo concessionario” ad ammettere all’attività di scavo i propri ospiti, mentre tale potere dovrebbe essere attribuito al direttore di scavo. In questo modo, la presenza del direttore di scavo (o dei responsabili sul campo) sarebbe sempre assicurata, essendo quest’ultimo responsabile della partecipazione dei turisti. In secondo luogo l’emendamento fornisce agli imprenditori agricoli titolari di agriturismi un vantaggio competitivo nei riguardi delle altre tipologie di strutture ricettive. Per evitare ciò, quanto previsto dall’emendamento dovrebbe essere esteso a tutte le categorie di soggetti operanti nel settore ricettivo. Possibilità che, a ben vedere, è già sottesa nell’indicazione stessa fornita dal Codice dei Beni Culturali, che individua tra i concessionari degli scavi soggetti pubblici e privati.

Finalmente si creerebbe in questo modo un meccanismo che possa incentivare i privati a valorizzare i beni archeologici e smettere di percepire i reperti ritrovati sui propri terreni come una minaccia alla propria attività.

Soprattutto è fondamentale che tutti gli italiani possano percepire il nostro Patrimonio come una ricchezza e guardare ad esso non soltanto attraverso una logica vincolistica.

Perché la tutela è strumentale all’arricchimento e alla conservazione della conoscenza. Senza questi ultimi aspetti, la tutela diviene fine a se stessa e smette di perseguire gli obiettivi che pone al vertice dei propri principi.

Gli italiani hanno bisogno di amare il proprio Paese. Non di sentirsi ospiti di un’intellighenzia arrogante e borghese.

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