Olimpiadi
Alle Olimpiadi vince un’Italia tenace, lavoratrice, variegata e meticcia
Difficile immaginare un auspicio per il futuro dell’Italia migliore della rappresentanza azzurra alle Olimpiadi. Marcell Jacobs, che ha sbalordito il paese e il mondo vincendo l’oro nei cento metri, è nato a El Paso, in Texas, è cresciuto a Desenzano ed è figlio di un militare statunitense e di una donna italiana; si sono conosciuti a Vicenza, in quella Caserma Ederle sede dello USARAF (ex SETAF) strategico per il Pentagono.
Irma Testa, prima medaglia olimpica della boxe femminile italiana, è una poliziotta di Torre Annunziata, comune della Grande Napoli con non pochi problemi e difficoltà, ma anche straordinariamente vitale (come tutta Napoli, del resto), dove c’è tanta gente onesta che crede nella legalità e nell’istruzione, a dispetto di certi stereotipi ancora duri a morire.
Paola Egonu, simbolo della Italvolley femminile, è nata a Cittadella, grazioso centro urbano nel profondo Nordest, da genitori nigeriani; viene da una famiglia di colletti blu (ce ne sono molte, nel Veneto dei capannoni: mica possono fare tutti gli imprenditori) e sta con una ragazza. E sta con una ragazza pure Alice Bellandi, judoka bresciana alla sua prima Olimpiade.
Quest’Italia, che lotta, vince e fa sognare milioni di nostri concittadini, è un’Italia molto diversa da quella che certi politici e opinionisti immaginano, e auspicano. Per esempio è un’Italia figlia della classe lavoratrice; è vero, ci sono i figli e le figlie d’arte (come l’eccezionale Gianmarco Tamberi, figlio di Marco, finalista a Mosca 1980), ma ci sono soprattutto ragazze e ragazzi nati in famiglie di colletti blu, persone “normali” che forse non hanno mai immaginato per i loro figli successi professionali di tale livello.
A taluni può suonare strano, ma molti genitori italiani sarebbero già soddisfatti se i loro figli riuscissero a trovare dei lavori stabili, sicuri, decenti, e non dovessero andarsene dall’altro capo del mondo; per molti il successo, in realtà, è “solo” la sicurezza di una vita tranquilla, serena, come sino a pochi decenni fa era legittimo aspettarsi, prima che la grande narrazione del tardo XX secolo iniziasse a celebrare il mito del nomadismo a tutti i costi, del “mettersi in gioco” a 20 come a 50 anni.
Quest’Italia vincente, cresciuta tra gente che sta in provincia, che prende il regionale o il bus la mattina, che vive magari in case in affitto, che va in vacanza a Jesolo o a Rimini, non è l’Italia patinata dei grandi poli urbani (leggi: Milano, un po’ Roma e Torino); è un’Italia poco cool, internazionale ma solo quando serve, e che nonostante il suo scarso glamour è tenace e non si arrende, e può essere una grande levatrice di talenti, e una fucina di successi.
È un’Italia fatta di italiani e nuovi italiani. È una cosa nota, ma è meglio ripeterla: se non ci fossero gli immigrati, distretti industriali come quello della concia di Arzignano, nel vicentino, chiuderebbero bottega. Quando qualche politico o qualche opinionista sproloquia di “invasioni”, o ironizza sulle “risorse”, dovrebbe pensare agli indiani che fanno il formaggio (spesso sfruttati), ai rumeni e ai nigeriani che raccolgono pomodori sotto il sole (quasi sempre sfruttati), agli albanesi e ai somali che ci fanno da medici, baristi, infermieri, badanti, barbieri, saldatori, autisti, programmatori informatici.
È un’Italia meticcia, quella che gareggia e vince a Tokyo. C’è chi è figlia di stranieri, chi è figlio di un italiano e di una straniera, c’è chi è italiano da generazioni e chi è italiano solo da poco. Quest’Italia, bellissima, che riesce a competere anche in specialità dove sino a ieri facevamo fiasco, è un’Italia che può dare tanto; non – meglio essere chiari – per (inesistenti) doti genetiche, ma perché l’immigrato, per farcela, deve impegnarsi il doppio, il triplo o il quadruplo di chi immigrato non è. Questo vale per il palermitano che a ventisei anni va a fare l’ingegnere a Torino, e ancora di più per l’etiope (o il figlio di etiopi) che studia e lavora a Pergine (Trento).
L’immigrato non può permettersi il lusso di mollare. Quando hai la pelle nera, e magari sei omosessuale, in una società come quella italiana anziana e ancora antiquata, talvolta beceramente razzista e omofoba, o sviluppi una volontà d’acciaio, o sarai costretto per tutta la vita a essere tuo malgrado un cittadino di serie B, C o D.
In un paese dove pezzi di destra e centrodestra conducono da anni una lotta serrata contro i diritti delle donne e della comunità LGBTI, dove un testo misurato come il ddl Zan fa gridare allo scandalo politici, opinionisti e intellettuali “moderati”, e dove in certe regioni governate dalla destra si combatte una guerra contro il diritto delle nostre concittadine all’aborto, donne, lesbiche, omosessuali e bisessuali ricoprono l’Italia di gloria, a tutto beneficio della reputazione del nostro paese, del brand Italia, e persino della nostra capacità di attirare talenti ed FDI. Non è poco.
Viva l’Italia, meticcia, tenace e operaia.
La cover di questo post è stata tratta da Pixabay.
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