Lavoro

Contro la disoccupazione giovanile servono nuovi istituti professionali

17 Giugno 2015

Quattro milioni 850 mila. Questo il numero di giovani europei disoccupati a febbraio, secondo Eurostat. Tra i paesi più colpiti, c’è il trio mediterraneo Grecia, Spagna e Italia. Tra i più virtuosi, la Norvegia, che però non fa parte dell’Unione europea, la Germania, l’Austria, la Danimarca e i Paesi Bassi. Anche la Svizzera (assente nell’indagine) vanta un’ottima performance. I sei paesi virtuosi hanno qualcosa in comune: puntano moltissimo sulla scuola professionale e l’apprendistato. In inglese si usa a tale proposito l’acronimo VET: Vocational Education and Training, cioè istruzione e formazione professionale tramite apprendistato.

Secondo un numero crescente di esperti, si tratta di un ottimo strumento nella lotta contro la disoccupazione giovanile. «In sintesi, il modo più intelligente e veloce per creare un’ampia varietà di posti di lavoro per gran parte dei giovani nei paesi di successo è un programma professionale che integri lavoro e apprendimento – scrive Nancy Hoffman, vicepresidente dell’ong Jobs for the Future di Boston e autrice del saggio “Schooling in the Workplace” –. L’obiettivo non è il “college per tutti”, come negli USA oggi, ma piuttosto fornire l’istruzione e l’apprendistato necessari ai giovani per prepararsi a una carriera, o a un mestiere».

Giacomo, 64 anni, pensionato, ha insegnato in vari istituti tecnici e professionali del Nord Ovest per oltre trent’anni.  A Stati Generali dice, senza peli sulla lingua: «Fino al 1965 in Italia, oltre alla scuola media, c’era pure quella di avviamento professionale. Spesso il percorso formativo di uno scolaro si concludeva lì, se non prima. Oggi i tempi sono molto cambiati ma pensare che tutti debbano avere una laurea è utopico. Per due motivi: primo perché, realisticamente, le capacità intellettive degli individui si differenziano molto; e poi perché una società funzionante e sostenibile ha bisogno di tecnici, geometri, idraulici, commessi e quant’altro, almeno finché la robotizzazione non avrà raggiunto livelli da fantascienza».

Angela insegna da quasi quarant’anni alle scuole medie, sempre al Nord. «Per esperienza posso dire che, tra i miei studenti, quelli che dopo le medie si diplomano a un tecnico o a un professionale, sono di solito più soddisfatti di chi va al classico o allo scientifico. Trovano lavoro più facilmente, e non sono obbligati a laurearsi. Ritengo che molti genitori mandino i figli al liceo per moda, e perché non accettano l’idea di avere un perito industriale o un meccanico in famiglia».

I commenti di questi due veterani della scuola pubblica possono suonare politicamente scorretti, ma i numeri sembrano dargli ragione. Secondo un’indagine di Almadiploma del 2013, dopo la maturità la grande maggioranza dei diplomati nei licei propende per il “solo studio”, mentre nei tecnici e nei professionali si tratta di una minoranza. Soprattutto, a cinque anni dal diploma, gli studenti che non vanno all’università e già lavorano sono il 66% tra chi ha frequentato un professionale, il 48% tra chi è andato al tecnico, e appena il 17% per chi esce dal liceo. Senza una laurea, a torto o ragione, un diploma liceale vale poco o niente sul mercato del lavoro.

Cinque anni fa un rapporto della Confartigianato evidenziava come le imprese non riuscissero a trovare abbastanza installatori di infissi e serramenti, marmisti, tagliatori di pietre, gelatai, panettieri, pasticceri, pavimentatori ecc… Secondo l’ultima indagine Excelsior realizzata da Unioncamere, nel 2014 il 15,9% delle imprese intenzionate ad assumere ha incontrato difficoltà a reperire personale adeguato (nel 2010 il dato sfiorava il 38%); nel complesso, le assunzioni hanno riguardato 255mila diplomati, 89mila qualificati professionali e 66mila laureati. Numeri come questi inducono a pensare che il tasso di disoccupazione giovanile italiano, pari al 42,6% a febbraio (e superiore di oltre 20 punti alla media europea), sia frutto anche di una scuola che è oggetto di continue riforme, ma che non riesce più a tenere il passo con la realtà.

«Nel nostro paese la disoccupazione giovanile e la crescita dei NEET (giovani che non studiano, non lavorano, non si formano) hanno varie cause – spiega a Stati Generali Marcello Dei, docente di sociologia dell’educazione all’Università di Urbino –. In primis c’è la crisi economica, e poi molte altre ragioni, tra le quali spicca la modesta qualità della formazione professionale italiana, specie al sud. Anche il carattere “aperto” del nostro modello di sistema scolastico ha le sue colpe. Infatti l’assenza di un canale privilegiato per l’accesso all’università è democratica, ma alimenta le aspettative di mobilità ascendente attraverso le credenziali educative, e scoraggia l’accesso precoce nel mercato del lavoro. Il sistema “chiuso” tedesco, in cui la ramificazione scolastica inizia dopo le elementari, è invece apertamente classista, ma il modello duale di formazione professionale che coinvolge Länder, sindacati e imprese, garantisce l’accesso a posizioni occupazionali lontane sì dall’accademia, però certe e solide». A parere di Dei, «il pensiero progressista immagina la scuola come una specie di autostrada che ciascuno percorre fin dove vuole o può, ma che non prevede sbarre per nessuno, fino in fondo».

Secondo Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, e coordinatore scientifico di Adapt (il centro di ricerca fondato nel 2000 da Marco Biagi), «in Italia persiste una forte resistenza culturale nei confronti del lavoro tecnico. Le radici di tale insofferenza alle professioni manuali sono storiche, basate su pregiudizi difficili da eliminare». In effetti, generazioni intere sono state allevate con il mito delle cosiddette professioni intellettuali come sola strada verso l’emancipazione, riducendo i lavori tecnici a realtà di poco valore. Si è trattato di un vero e proprio errore prospettico fondato sull’idea che tutto quello che ha a che fare con la manualità abbia di per sé poco valore. «Oggi la realtà ci mostra che le cose non stanno così – continua Tiraboschi –. Le professioni del futuro sono quelle in cui intelletto e manualità si fondano insieme. Penso agli artigiani digitali o agli sviluppatori di complicatissimi sistemi di software. Il semplice pensare senza il fare non li porterebbe da nessuna parte. Per questo occorre invertire la rotta anche nella formazione dei giovani italiani. Evitando che si porti avanti una mitologia che appartiene alla storia del Novecento».

Non è così nel mondo germanico. A cominciare dalla Svizzera. Lì circa due terzi dei giovani che finiscono i nove anni di scuola dell’obbligo optano proprio per il VET. Così importante da essere oggetto di un articolo ad hoc della costituzione federale («la Confederazione emana prescrizioni in materia di formazione professionale«). Per gli svizzeri l’apprendistato non è una scelta di ripiego, o una “zona protetta” per studenti poco capaci, ma il primo passo per una carriera ben retribuita e di successo. Oltre alla democraticità di un simile approccio, bisogna notarne la praticità: si tratta di una formazione mista, integrata, che comporta 3-4 giorni in azienda e 1-2 a scuola; l’apprendista “impara facendo”, sotto la supervisione di un maestro di tirocinio, capisce cosa significa lavorare in un’azienda, se il mestiere gli piace o no, quali aspetti teorici approfondire.

L’apprendistato è preso sul serio in Svizzera. Oltre 50mila aziende, dai grandi magazzini di Zurigo alle piccole ditte edili dei Grigioni, accettano apprendisti, dandogli formazione sul campo e un salario. In cambio, oltre ad assolvere a un obbligo sociale, hanno manodopera giovane, energica e da plasmare secondo necessità. «Il sistema dell’apprendistato è un po’ il fiore all’occhiello dell’istruzione elvetica – dice Fabrizio Zilibotti, docente di economia presso l’Università di Zurigo, agli Stati Generali, che lo ha incontrato in occasione del Festival dell’Economia di Trento –. Manager di aziende di peso come Sergio Ermotti, amministratore delegato di UBS, vengono dal sistema dell’apprendistato». Il banchiere ticinese, che è stato anche a capo della divisione Corporate & Investment Banking, iniziò la sua carriera bancaria ancora giovanissimo, a 15 anni, come apprendista presso la Corner Bank di Lugano, anche se questo non gli impedì poi di andare a specializzarsi pure a Oxford.

Il VET elvetico varia da Cantone a Cantone, e benché assai orientato alla concretezza, non impedisce una formazione superiore successiva: si può accedere sia alle Scuole universitarie professionali (SUP), che combinano una preparazione teorica approfondita con lunghi periodi di stage, sia all’università, dopo aver superato degli esami complementari. «Quando discuto di questi temi in Italia noto una certa diffidenza, specie tra coloro che hanno idee progressiste. La paura è che in questo modo si creino scuole di serie A e scuole di serie B – nota Zilibotti –. Ma in Svizzera la formazione professionale non è una scuola di serie B, alla peggio è una B++. Funziona molto bene, e di solito chi ottiene una maturità professionale entra nel mondo del lavoro assai rapidamente».

In “Schooling in the Workplace” la Hoffman cita la Swisscom, principale operatore elvetico di telecomunicazioni. L’azienda si occupa di un business ad altissima intensità tecnologica, eppure dà lavoro a oltre 800 apprendisti tra i 16 e i 19 anni. D’altra parte, una maggior enfasi sulla formazione professionale non impedisce alla Svizzera di essere il paese più innovativo del mondo, almeno secondo la graduatoria globale realizzata da WIPO, Cornell University e Insead.

Un altro paese che punta molto sul VET è l’Austria. Come in Svizzera, c’è un sistema duale, grazie al quale l’apprendista trascorre gran parte del suo tempo in azienda, e il resto a scuola. I costi del tirocinio sono a carico dell’impresa (incluso un salario di apprendistato il cui livello minimo è negoziato da sindacati e datori di lavoro), mentre i costi della formazione part-time a scuola sono finanziati dallo stato. Altri aspetti importanti sono il forte coinvolgimento delle parti sociali a tutti i livelli (gli stessi docenti provengono spesso dalle imprese), e la possibilità di accedere comunque agli studi superiori, dopo un apposito esame.

Infine c’è il caso tedesco. Erede dell’apprendistato nelle corporazioni medioevali, il sistema di formazione professionale tedesco è duale, alla stregua di quello austriaco e svizzero. Come si può leggere in un documento dell’OCSE, «il VET è profondamente rispettato e integrato nella società tedesca. Il sistema offre una vasta gamma di qualificazioni professionali, e si adatta in maniera flessibile alle mutevoli necessità del mercato del lavoro». Rispetto all’Italia, dove il piano di studi è più o meno lo stesso per tutti gli alunni sia alle elementari che alle medie, in Germania gli studenti tedeschi devono decidere già a 10 anni se continuare con un percorso più “alto”, che avrà come sbocco naturale l’università, o no. La carriera scolastica di gran parte di loro sfocerà alla fine nell’apprendistato, dividendosi tra azienda e scuola ((anche se esistono scuole professionali full-time).

Al termine dei 3-4 anni di VET il giovane otterrà una qualifica specifica che, verosimilmente, gli farà ottenere un posto nell’impresa dove hanno svolto l’apprendistato. Al pari che in Austria, anche in Germania aziende e sindacati sono molto coinvolti nella co-gestione del VET, e la qualifica è una vera e propria credenziale con valore occupazionale. Le specializzazioni possibili sono oltre 340, e il salario medio pagato all’apprendista è circa un terzo di quello di un lavoratore qualificato. A vegliare sul processo di apprendistato sono i sindacati, che in Germania si fanno un punto di onore di tutelare i più giovani.

«Uno dei punti di forza del VET è che teniamo i nostri ragazzi più a lungo nel sistema educativo – racconta agli Stati Generali Heike Solga, sociologa presso la Libera Università di Berlino ed esperta del settore –. Infatti anche chi va a fare l’apprendistato e non l’università riceverà, comunque, 13 anni di istruzione: dieci anni di scuola obbligatoria più gli anni di apprendistato». Secondo la sociologa un altro punto di forza del VET tedesco è che «i giovani entrano in un sistema molto strutturato che li introduce gradualmente al mercato del lavoro. Non è una mera acquisizione di competenze, ma un programma di accesso. Quando hanno finito sono lavoratori qualificati, con competenze specializzate».

Insomma, il VET germanico sembra imbattibile. Ovviamente oltre alle luci ci sono anche le ombre. Per esempio, i giovani lavoratori sono sì competenti, ma poco creativi e flessibili. Ancora, spesso sono soprattutto i figli di laureati ad andare all’università, mentre i figli di tecnici e operai prediligono l’apprendistato. Nel complesso, però, sembra un modello in grado di garantire, almeno, una buona occupazione. Tanto da destare crescente interesse non solo in Italia, ma negli Stati Uniti e soprattutto in Francia, che invece ha un modello anfibio. Infatti alla fine del collège (simile alla nostra scuola media ma della durata di quattro anni) lo studente francese può optare sia per il liceo vero e proprio (con i suoi diversi indirizzi disciplinari) sia per gli istituti tecnici (baccalauréat technologique) sia per la formazione professionale mista (periodi di studio in centri ad hoc con apprendistato in azienda).

Autorevoli esperti, come il sociologo Vincent Troger, hanno criticato il sistema, parlando di marginalizzazione dell’istruzione tecnica e professionale. Nel 2012 il quotidiano Le Monde ha pubblicato un editoriale dal titolo “La triste storia dei diplomi professionali”, ed è ormai evidente come per moltissimi francesi la formazione professionale sia una scelta di ripiego.  Si fa poi strada l’idea che una scuola media unica, molto orientata al sapere generalista e poco attenta alla tecnica e al saper fare, penalizzi chiunque non possa (o non voglia) andare all’università: da una parte l’assenza di attività manuali nei programmi dei collège promuove l’idea che le uniche displine importanti siano quelle speculative e simboliche; dall’altra danneggia quegli allievi che magari sono delle schiappe in letteratura francese o storia, ma che sono bravissimi a creare con le mani, e abbondano di senso pratico.

Ne “La buona scuola” del premier Matteo Renzi sembra che il VET germanico sia preso in considerazione. Infatti si parla di “avvicinarsi alla costruzione di una via italiana al sistema duale, che ricalchi alcune buone prassi europee, ma che tenga in considerazione le specificità del tessuto industriale italiano e valorizzi la migliore tradizione di formazione professionale”. Nel documento del governo ci si imbatte in termini suggestivi come “bottega scuola”, “apprendistato sperimentale”, “impresa didattica”. Ancora, si chiede di «introdurre l’obbligo dell’Alternanza Scuola-Lavoro (ASL) negli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici ed estenderlo di un anno nei Professionali, prevedendo che il monte ore dei percorsi sia di almeno 200 ore l’anno». Per ora il disegno di legge è in alto mare e, se e quando verrà approvato, bisognerà vedere se seguiranno i fatti, soprattutto in base alle risorse stanziate.

Lorenzo Gaggino, 62 anni, è preside dell’istituto tecnico industriale “Alessandro Rossi” di Vicenza. La scuola è famosa nel Nordest sia per la qualità dell’insegnamento, sia per una valutazione rigorosa degli studenti: qualche anno fa ha avuto risonanza nazionale il caso di una classe di prima con appena sei promossi su trenta. Tra i suoi alunni vanta Federico Faggin, inventore del primo microprocessore. «I nostri due punti di forza principali sono la competenza degli insegnanti e una selezione seria degli studenti – conferma Gaggino –. I nostri ragazzi, per andare avanti, devono avere voglia di studiare».

Il “Rossi” è ben integrato nella realtà produttiva locale. Non è certo un unicum, specie in territori di PMI quali il Veneto o l’Emilia Romagna. Come scrive ad esempio la ricercatrice Carlotta Piovesan dell’Università di Bergamo, «lo stesso successo del tessuto imprenditoriale bolognese si deve proprio allo stretto legame che si venne a creare fin dal secondo dopoguerra tra le imprese del territorio e il “Aldini Valeriani Sirani”, storico istituto tecnico industriale che da sempre sforna, oltre a numerosi validi professionisti, anche molti manager e imprenditori oggi a capo delle maggiori aziende del territorio».

Purtroppo come moltissime altre scuole italiane, anche il Rossi non ha abbastanza fondi per far fronte all’obsolescenza dei laboratori. «Spesso dobbiamo organizzare stage in azienda per consentire ai ragazzi di usare le attrezzature più moderne», osserva il preside. La crisi economica però almeno un risvolto positivo ce l’ha: fa venir meno un certo snobismo nei confronti di istituti tecnici e professionali. Perché chi esce da una di queste scuole, se è seria, un lavoro di sicuro lo trova.

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Nella foto di copertina, La sede dell’Istituto Universitario Federale svizzero per la Formazione Professionale (IUFFP)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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