Nella guerra tra l’iphone e il telefono a gettone, nella versione di Renzi, o tra chi vuole eliminare l’articolo 18 per i neo-assunti e chi vuole ripristinarlo per tutti, nella versione Cgil e Fiom, Sara non riesce a trovare un posto. Con questa ragazza di venticinque anni, neo laureata, ho fatto un lungo tratto della manifestazione romana dello sciopero sociale che venerdì 14 novembre ha portato in piazza almeno 70 mila precari o partite Iva in più di venti città in Italia. Manifestazioni che hanno portato in piazza una maggioranza di studenti, ma non solo. Tutti insieme sono la scheggia di un continente sommerso, una nuova atlantide dove si svolgono mille attività diverse. La loro somma non corrisponde al lavoro che il Jobs Act intende deregolamentare o a quello che i sindacati difendono: il lavoro dipendente.
Sei fortunato, puoi continuare a lavorare al nero
«Ho venticinque anni e non permetterò a nessuno di dire che non ho mai lavorato», dice Sara che dal 2011 si è sentita chiamare dai ministri dell’Istruzione o del lavoro nell’ordine: “bambocciona”, “choosy” [schizzinosa], “sfigata” o “costo sociale”. Invece Sara è operosissima: ha prestato, nell’ordine, assistenza a una signora anziana non autosufficiente e in cambio ha ottenuto di dormire in una stanza del suo appartamento; le corvée classiche in bar e pub al servizio ai tavoli o al bancone. «Pagata di merda, ma è l’unico lavoro reale che trovo di solito». Spilla qualche centinaio di euro facendo la truccatrice in produzioni video o cinematografiche: «È un lavoro che mi piace da piccola, quando giocavo con i trucchi con le mie sorelle.
Molte attività, mai un contratto. A termine, parziale, somministrato, a chiamata, cocopro o cococo, una ritenuta d’acconto. Sono nomi che parlano di un pianeta remoto. Domani si ricomincia, come se non avesse mai lavorato in vita sua. “Io ho 25 anni e non permetterò di dire a nessuno che non ho mai lavorato” ripete. Solo che non può dimostrarlo perché manca la prova regina che dimostra che lavora. Per le statistiche è una “neet”, una “sfiduciata”, un’inoccupata.
Garantire le imprese. E i giovani?
In preparazione dello sciopero sociale Sara ha partecipato a un blitz a Porta Futuro a Roma, il centro per l’impiego della Provincia di Roma ispirato al modello catalano di «Puerta 22», dove lo scorso maggio il ministro Giuliano Poletti con il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e la presidente della Camera Laura Boldrini hanno presentato la “Garanzia giovani” per la quale sono stati stanziati 1,5 miliardi in cofinanziamento.
Gli iscritti al programma sarebbero 260 mila, i posti ad oggi disponibili sono solo 6.945, le occasioni di lavoro attive ancora meno: 5.125, la maggior parte dei quali concentrati nel Nord del paese (il 71,9%), mentre al Centro e al Sud la Garanzia giovani è un flop: rispettivamente il 13,6% e il 14,4%. I “neet” come Sara in Italia sarebbero oltre 2 milioni. Per un bacino così vasto ci sono poco più di 5 mila offerte di lavoro.
«Dopo averci descritti come fannulloni – dice Sara – vogliono spingerci ad accettare apprendistati, stage e tirocini, che non hanno nulla a che vedere con la formazione o con i lavori precedenti. Chi non accetta viene trattato come un appestato. per tutti gli altri non c’è niente di niente».
Secondo una ricerca del centro studi Adapt, il 90% delle offerte di lavoro non viene dalle imprese, ma dalle agenzie interinali. L’operazione pedagogica verso i giovani alimenta un equivoco che caratterizza il mercato del lavoro italiano da vent’anni. Prima la burocrazia pubblica e privata, poi i diretti interessati. Il governo ha offerto agli intermediari di manodopera un nuovo canale per veicolare basse qualifiche a costo zero.
Le riforme del lavoro che producono disoccupazione
Chi oggi è al volante della macchina è consapevole di questa situazione. Sono le sue soluzioni a destare preoccupazione. Fare politica della domanda, tagliare il costo del lavoro, vincolare l’esistenza della persona alle esigenze delle imprese è una ricetta fortemente sostenuta dal governo. Ma fino ad oggi liberalizzare il mercato del lavoro non ha portato a un aumento dell’occupazione. Il fallimento è chiaro a molti, e non solo a chi oggi protesta.
Questa realtà è emersa dopo l’approvazione della riforma Fornero del lavoro nel 2012. Dall’inizio della crisi, e nei cinque anni successivi, sono scomparsi circa 350mila collaboratori. Quella riforma è nata per “favorire la crescita” e ha neutralizzato l’articolo 18. Cercò anche di riportare le “false partite Iva” nell’ambito del lavoro dipendente. Risultato: solo tra il 2012 e il 2013 sono rimasti disoccupati quasi 200mila collaboratori. Una catastrofe.
Quando si dice che la riforma delle regole del mercato del lavoro non crea posti di lavoro non si ammette mai che interventi legislativi di questo tipo agevolino la disoccupazione di massa. Un risultato che potrebbe ripetersi con la riforma dei contratti a termine e con l’introduzione del contratto “a tutele crescenti”. In entrambi i casi, si lascia all’impresa la totale libertà di rinnovare o chiudere i contratti. E alla persona interessata solo un indennizzo, misurato sulla base della durata della sua prestazione.
Questa tesi governativa torna nella decontribuzione totale per tre anni sui nuovi assunti tra i 25 e i 34 anni. Lo sgravio è stato fissato a 6.200 euro l’anno per una retribuzione lorda annua di circa 19 mila euro, 1.200 euro netti al mese. Il governo parla di 1,9 miliardi di euro all’anno dal 2015 al 2017. Una somma inadeguata, utile ad assumere 306.451 persone all’anno.
Secondo i dati del ministero del Lavoro, nel 2013 sono stati attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato. I fondi stanziati verrebbero esauriti già a metà del 2015. Per ottenere una cifra di assunti pari alle previsioni, Renzi dovrebbe raddoppiare i fondi, senza avere la certezza di un aumento dell’occupazione.
Una volta terminati gli incentivi, per le imprese sarà più conveniente scegliere i bassi compensi degli atipici. Il meccanismo è arrivato a un punto di non ritorno: il lavoro gratuito e l’auto-sfruttamento. Questo è, in fondo, il senso delle manifestazioni di venerdì.
Fermati un attimo, Matteo
C’è un’ipotesi sulla quale Renzi potrebbe riflettere, se riuscisse a stare fermo. Il clima di sfiducia, contro il quale reagisce a strattoni, non è il sintomo del pessimismo antropologico degli italiani. Potrebbe essere invece il risultato ponderato del fallimento delle politiche del lavoro adottate sin dagli anni Novanta. Quelle che continua ad applicare nel Jobs Act.
Partendo invece dai bisogni delle persone, c’è la possibilità che Renzi riesca a stabilire un’empatia con chi vive nella terra di nessuno tra i venti e i trent’anni. Chi, come lui, ne ha quaranta appartiene a un’altra generazione che ha imparato a fare della vita un bricolage di contratti atipici e partite Iva, imprese individuali e impieghi intermittenti.
Chi ne ha venti di meno vive in tutt’altro orizzonte. Vede rare occasioni di successo, per lo più rappresentate nell’eccezionale riuscita di qualche start-up. Molto più spesso si trova impelagato nelle regole di un apprendistato infinito che non porta mai ad un lavoro vero. Da qui nasce l’estrema diffidenza e il sentimento di sfiducia. Con una certezza: non ripetere le biografie fallimentari dei fratelli maggiori. Se non è possibile fare di meglio, allora meglio sottrarsi. Non è una scelta. È un rifiuto.
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