Lavoro

Giovani, lavoro e oltre: una riflessione con Luca de Vecchi e Davide De Luca

10 Maggio 2019

L’arrivo di maggio porta inevitabilmente a riflettere su un tema fondante della nostra società quale è il lavoro. Ogni anno – tra concertoni, contro-manifestazioni, polemiche e affini – ci si interroga su quali siano le ricette per arrivare a garantire quello che, in teoria, sarebbe un diritto costituzionale.

Noi di Yezers – la startup dei giovani e per i giovani che abbiamo presentato in un nostro recente articolo – mettiamo questo tema in cima alla lista dei nostri interessi, perché se è vero che esso riguarda trasversalmente tutte le fasce d’età, è sulle giovani generazioni che si fa sentire in tutta la sua drammatica evidenza.

Il quadro infatti è a dir poco preoccupante, stando alle stime e ai trend italiani rispetto a quelli dei vicini paesi europei. Secondo i dati dell’ISTAT, a marzo nel nostro Paese il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 anni ammonta al 30.2%, ai minimi dal 2011 ma pur sempre su livelli doppi rispetto alle medie europee (dove il valore si attesta al 14.5%). Forse il dato più preoccupante riguarda tuttavia i NEET – ossia coloro che né studiano, né lavorano, né frequentano corsi di formazione – che, pur in calo rispetto al picco negativo di 2.4 milioni del 2014, restano oltre i 2 milioni tra gli under 30.

Perché proprio (e, se continuiamo così, solo) in Italia questo gap generazionale? È proprio vero che l’Italia “non è un paese per giovani”? Dove risiedono le cause del problema e quali possono essere le soluzioni? Ne abbiamo discusso con Davide De Luca, giornalista de Il Post, e Luca de Vecchi, avvocato giuslavorista, in occasione di uno degli eventi politici che come associazione promuoviamo per stimolare il dibattito sui grandi temi che riguardano i giovani (in fondo alla pagina una clip dell’evento).

Secondo De Luca, il problema italiano è anzitutto di tipo strutturale. Innaturalmente lungo è infatti il periodo che serve ai giovani per “uscire dal nido”, quello che cioè intercorre tra la fine degli anni di studio ed il primo impiego e che permetterebbe di raggiungere l’indipendenza economica al passo con le tempistiche europee.

Quando poi i giovani riescono, se mai ci riescono, ad entrare nel mondo del lavoro – e, attenzione, con un vero impiego, non con uno stage, una della più grandi storture del mercato del lavoro italiano, su cui non a caso in Yezers stiamo sviluppando una proposta – l’ago della bilancia si sposta sul tipo di trattamento che ricevono, regolarmente svantaggiato rispetto ai colleghi più adulti. È qui che il nostro Paese pecca di incapacità di investire nel proprio futuro.

A tal riguardo, giova effettuare un piccolo excursus sul quadro normativo del mercato del lavoro.

Come ci ricorda de Vecchi, la Riforma Fornero (2012) – quella appunto del lavoro, da non confondersi con quella delle pensioni, su cui torneremo più sotto – stabiliva di modificare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori al fine di creare una maggiore flessibilità in uscita: l’idea era quella di ridurre le condizioni che obbligassero al reintegro in caso di licenziamento.

Il successivo Jobs Act promosso dal governo Renzi nel 2015 aveva come obiettivo il rendere il mondo del lavoro più dinamico e flessibile attraverso interventi deregolatori. Il suo pilastro era il riconoscimento di un indennizzo proporzionale all’anzianità di servizio, senza quindi obbligo di riassunzione, in caso di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo di un lavoratore dipendente. Le nuove norme però si applicavano ai soli neo-assunti, creando una forte disparità tra le giovani generazioni (a rigor di logica le più soggette alla stipula di nuovi contratti, trovandosi esse ad entrare nel mondo del lavoro) e le più anziane che invece mantenevano il precedente regime più tutelato, in ciò peraltro differenziandosi dalla Riforma Fornero che non prevedeva alcuna distinzione tra le diverse classi dei lavoratori. Non sorprende che proprio l’articolo sui licenziamenti sia stato poi dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale nella misura in cui lega l’indennità di licenziamento all’anzianità di servizio del lavoratore.

Il cosiddetto Decreto Dignità, il primo provvedimento varato da Di Maio in qualità di Ministro del Lavoro la scorsa estate, non ha aiutato a semplificare il quadro. Come noto, tale decreto, oltre a ridurre da 36 a 24 mesi la durata massima di un contratto a tempo determinato, ha introdotto la necessità di indicare una causale per il rinnovo di tale contratto. Tale necessità era stata eliminata dal governo Monti e aveva fatto diminuire esponenzialmente le cause di lavoro, dato che è notoriamente molto difficile formulare una causale di rinnovo “a prova di bomba”. L’obiettivo era, ovviamente, rendere più complessa la stipula di contratti a tempo determinato favorendone così la trasformazione in tempo indeterminato. Il rischio, d’altro canto, è che la riduzione della durata massima dei contratti a termine determini un maggiore turn over tra i lavoratori, senza giungere ad un’effettiva stabilizzazione. A quasi un anno dall’introduzione del decreto, i risultati netti sembrano pressoché trascurabili.

Questa breve panoramica, sottolinea de Vecchi, ci fa notare come in Italia le riforme del lavoro si susseguano a intervalli brevissimi e regolari. Questo disaccordo tra governi è tremendamente deleterio per la solidità del mercato del lavoro e per l’economia in generale. Ciò che gli operatori economici chiedono, infatti, è primariamente la stabilità del quadro normativo, nel contesto della quale possono poi essere prese le decisioni di investimento. Tale stabilità, invece, non c’è. L’unica certezza è che nel momento in cui si devono varare delle riforme che creano delle difficoltà, queste difficoltà si scaricano interamente e regolarmente sulle nuove generazioni.

Il punto fondamentale, riprende De Luca, è che siamo un Paese che invecchia e che è giocoforza impaurito da tutto ciò che guarda al lungo termine, con investimenti sul futuro di conseguenza penalizzati e trascurati. In questo quadro, le fasce più anziane della popolazione stanno molto meglio dei giovani. Per i primi, infatti, il rischio di diventare poveri è diminuito dopo la crisi economica; anzi, il picco di risparmio della nostra economia si concentrerebbe proprio in età pensionistica, andando ad aumentare un divario già piuttosto marcato da uno dei sistemi di redistribuzione del reddito più diseguali d’Europa. Non sorprende dunque che l’OCSE affermi come entro il 2050 l’Italia sarà il terzo paese più vecchio al mondo dopo Spagna e Giappone. La causa profonda di questo avvenire sfiduciato risiede in gran parte in manovre politiche che negli anni hanno aumentato le iniquità nel Paese.

Infatti, i privilegi maturati in termini di carriera lavorativa di cui abbiamo discusso sopra si sommano alle disparità in termini previdenziali che raggiungono livelli intollerabili. De Vecchi ci ricorda poche ma significative cifre: prima della Riforma Fornero si andava in pensione a 57, massimo 60 anni, con il sistema retributivo e dopo aver versato contributi che nei decenni scorsi non superavano il 10-20% della retribuzione annua lorda. La Riforma Dini del 1995 aveva già introdotto il sistema contributivo per i neo-assunti, salvaguardando – guarda caso – i lavoratori già presenti nel mondo del lavoro, che mantenevano il regime retributivo (interamente se al 1995 erano stati maturati almeno 18 anni di contributi, pro-rata in caso contrario). In questo quadro, le giovani generazioni, avendo peraltro già sperimentato l’aumento dei contributi a circa un terzo della retribuzione annua lorda, sono destinate ad andare in pensione molto più tardi (circa a 70 anni) e con trattamenti molto più bassi (calcolati appunto col contributivo e non col retributivo, cosa che determina grossomodo una diminuzione del 20-30% dell’assegno). La Riforma Fornero ha cercato di riequilibrare una situazione scandalosamente sbilanciata a danno delle giovani generazioni. E il nuovo Governo cosa ha fatto se non introdurre Quota 100, ossia l’ennesimo provvedimento elettorale della storia repubblicana gravante sulle tasche dei giovani? A dir poco beffarda è peraltro la giustificazione venduta per sostenere tale provvedimento: la previsione che per ogni pensionamento ci sarà una nuova assunzione, a tutto vantaggio dei giovani, chiaramente. I recenti dati ISTAT suggeriscono una realtà ben diversa: dato che molte delle domande per Quota 100 vengono da disoccupati (che quindi evidentemente non liberano alcun posto di lavoro) e da dipendenti pubblici (per i quali la sostituzione è tutto tranne che automatica), è probabilmente già ottimistico sperare in un tasso di sostituzione di 1:3. Ottimistico, perché c’è infatti chi sostiene, come Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, che il tasso reale di sostituzione sarà dell’ordine del solo 10%. Il tutto, insistiamo, a spese delle giovani generazioni in termini di debito pubblico, e non solo: se molti lavoratori escono dal mercato del lavoro prima del tempo, più contributi devono essere versati per mantenerli da chi è ancora in attività (contributi che aumentano proporzionalmente alla diminuzione dell’età pensionistica). Il conseguente alto costo del lavoro finisce col disincentivare le imprese ad assumere, finendo di nuovo col penalizzare i giovani.

E il Reddito di Cittadinanza? In attesa che la macchina entri definitivamente a regime, già fioccano le polemiche sull’entità del sussidio che starebbe scontentando molti richiedenti, i quali riceveranno molto meno dei 780 euro promessi dal Movimento 5 Stelle in campagna elettorale. Qui in effetti c’è un punto fondamentale da chiarire: il Reddito di Cittadinanza è un provvedimento teso a contrastare la povertà o a favorire l’occupazione? A giudicare dal fatto che molti stanno protestando per l’entità del sussidio mentre nessuno sta fiatando sulle lungaggini legate all’assunzione dei cosiddetti navigator, che dovranno aiutare i beneficiari del sussidio a trovare un lavoro, appare chiaro come l’obiettivo primario fosse la pura percezione del reddito (o la sua erogazione, vista dalla parte politica). Intendiamoci, un provvedimento in favore della povertà è sacrosanto ed esiste praticamente in tutti paesi europei. Il Reddito di Inclusione, approvato dal Governo Gentiloni nel 2017, andava peraltro in questa direzione: si poteva rafforzare, estendendo la platea degli aventi diritto e/o aumentando l’importo dell’assegno… ma il claim elettorale del Reddito di Cittadinanza aveva con tutta evidenza altre esigenze.

La conclusione sta tutta qui, quindi? Tutte le speranze delle giovani generazioni si dovrebbero ricondurre all’erogazione di un sussidio, con buona pace per il lavoro?

Soluzioni facili non ce ne sono, questo è ovvio. Ma la riflessione deve partire da un livello più profondo. I governi continuano a cambiare, il senso politico si è negli anni perso: non si votano più partiti perché portatori di una cultura o una visione, ma solo in base a quello che arrivano ad offrire. E i giovani in tutto questo? I giovani sono la generazione più depoliticizzata del dopoguerra, assolutamente incapace di scoprire e fare politica. È anche per questo che i governi li penalizzano regolarmente. Perché non votano, non protestano, non si fanno sentire. Anche nel quotidiano, si potrebbero citare mille esempi di ragazzi che, appena entrati nel mondo del lavoro, subiscono delle ingiustizie (ad esempio la mancata retribuzione degli straordinari, oppure l’essere obbligati ad orari di lavoro assurdi) senza che muovano delle rimostranze. Un grande classico della generazione dei Millennials è che è rarissimo che essi decidano di ribellarsi e fare qualcosa. In questo sicuramente la nostra generazione dovrebbe migliorare: a differenza delle generazioni precedenti, siamo una generazione non abituata a combattere per i propri diritti, siamo una generazione non cosciente di poter pretendere quello che, è proprio il caso di dirlo, è il minimo sindacale.

La strada da seguire è quindi l’impegno civile e politico che promuova una vera coscienza generazionale e da qui avvii un percorso teso alla valorizzazione del nostro Paese – che si fondi la qualità della vita italiana, la bellezza del territorio, il suo capitale umano – al fine di renderlo veramente attrattivo.

L’obiettivo di Yezers è proprio quello di stimolare tale impegno, in mancanza del quale il rischio è quello di diventare più soli (e vecchi) di quanto purtroppo già siamo.

 

Samuel Carrara

Responsabile Editoriale di Yezers

 

Giulia Lizzi

Redazione di Yezers

 

https://www.youtube.com/watch?v=y5F9eQk_g3c

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