Musica
La musica bisestile. Giorno 217. Crosby Stills & Nash
Senza Neil Young, il trio fondatore della musica West Coast dà il meglio di sé, tra atmosfere mistiche ed i cori del country rock della California di cui abbiamo sempre sognato
CSN
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Era un momento tristissimo, pieno di solitudine e di paura per il futuro. Un momento in cui, per pigrizia e per fifa, feci una serie di scelte sbagliate che ho poi pagato lungo un periodo di quasi 15 anni – ed anche nel momento in cui, finalmente, il conto della mia idiozia giovanile fu saldato, ero ancora nella situazione in cui non avevo capito perché certe cose fossero accadute. Il passato è una terra straniera, scrive giustamente Carofiglio, ma vi assicuro che a quei tempi anche il presente non è che scherzasse. Sicché, ogni volta che potevo, di notte salivo sulla FIAT 850 di mia nonna ed andavo, solo soletto, a suonare questo disco a Piazza Navona.
Incontravo spesso gli stessi sconosciuti, con cui si scambiavano un po’ di delicate sciocchezze e contorte inutilità, ma soprattutto suonavo, e “Cathedral” mi sembrava il brano più bello che avessi mai imparato a suonare. E mi riusciva davvero bene. Mentre “See the changes” mi sembrava la canzone per ciò che mi stava accadendo – o meglio, per ciò che io speravo che mi stesse accadendo, perché in realtà ero talmente stupido e spaventato da essere avvinghiato alle mie paure, alle mie bugie, alle mie dinamiche, al mio immobilismo. Ero annoiato da me stesso, e solo imparare a suonare nuove canzoni mi dava un minimo di soddisfazione.
Poi arrivò lui, Umberto, che iniziai presto a prendere in giro, per quanto lo odiavo. Beveva forte, girava Roma a piedi nudi, diceva una marea di cose spiacevoli, sciocche o volgari, ma era il Robert Johnson inflittomi personalmente dal fato. Suonava come l’Angelo del castigo universale, ed imparava brani nuovi solo dopo averli ascoltati una volta, come se tutto fosse semplicità ovvia e trasandata. E mentre io suonavo questo disco e lui mi accompagnava, facendo il contrappunto in finger-picking, ad aggiungendo una dinamica stupenda, mi raccontava di Robert Johnson, che aveva stretto un patto col diavolo, e di Bill Dixon, che aveva scritto tutte le canzoni che poi i Rolling Stones avevano rubato per diventare famosi.
Eravamo nell’estate del 1979, il disco lo avevo da un po’, ed in quel periodo usciva pochissima roba che mi entusiasmasse. Umberto suonava cose che non conoscevo, e la gente intorno cantava, facendomi sentire un fallito, un ignorante, un cretino – e le cose andarono avanti così per oltre un anno, prima che mi riprendessi. Le cose cambiarono, iniziai a lavorare, ad occuparmi attivamente di politica, feci il servizio militare, mi sposai, divenni padre, andai a vivere in Svizzera, divenni un giornalista affermato, divorziai, finii a fare il contadino in Germania Est, ripresi a scrivere grazie ad “Avvenimenti” ed a Michele Gambino.
Formalmente, il mio matrimonio venne risolto in Tribunale nell’estate del 1994, ma in realtà vivevamo separati già da almeno tre anni. Fragilissimo, devastato da un matrimonio completamente sbagliato, mortalmente ferito dall’aver perso la quotidianità con mia figlia, mi innamorai di una collega e, per starle vicino, iniziai a cercare un modo per tornare a vivere ed a lavorare a Roma. Senza dirle niente, perché c’era una grande pressione dell’ambiente che avrebbe dovuto diventare il mio posto di lavoro, dove lavorava anche lei, e che per motivi a me sconosciuti non voleva che questa storia accadesse. Venivo preso in giro, lei mi veniva descritta in termini negativi, da diverse parti mi si consigliava di lasciar perdere.
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Sta di fatto che lei, della mia cotta e di tutto il resto, non ha mai saputo nulla, anche se oggi, ripensando a certi momenti ed a certe frasi, credo che anche lei volesse. Ma non è accaduto. Sicché la sera andavo da solo, sedici anni dopo, a suonare a Piazza Navona. La piazza era completamente cambiata, non c’era più nessuno, se non turisti ed ogni tanto qualche pizzardone che mi intimava di smettere e di andarmene. Sicché spesso sedevo con la chitarra in mano, senza suonarla. Una sera, un barbone veramente malmesso si mise a sedere, a gambe incrociate, davanti a me. Feci finta di non vederlo, e lui disse: “La piazza ti aspettava da tanti anni, devi tornare qui a suonare, devi smetterla di scappare”. Risi, dicendo che la piazza non aspetta nessuno.
E lui iniziò a cantare “See the changes”. Suonala, dai, mi chiese. Così io e ciò che restava di Umberto suonammo una volta ancora questo disco malinconico e meraviglioso, dedicandolo a tutti i nostri fallimenti, alla solitudine, alla nostra incapacità e fragilità, e ad una piazza, oggi oramai morta e sepolta, che diede la vita a me e ad un’intera generazione di angeli discoli e infantili, che facevano una musica stupenda ed erano, loro sì, un monumento da difendere. Sono tornato nel 2011, e sono rimasto a Roma per quasi sei anni. Ma a Piazza Navona non ci sono andato più. Non mi piacciono i funerali. Ma quel disco lo so suonare ancora. Lo dico per Umberto, che magari è morto, e per il piccolo tontolone chiamato Paolo Fusi, che ha navigato per mille anni per non arrivare mai oltre gli scalini della porta di casa.
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