Scienze
La scuola deve insegnare, non dare felicità
Non sono impazzito, ma semplicemente uso il titolo di un recente articolo di Mario Giordano apparso su Panorama nella sua rubrica “Il Grillo Parlante”, consapevole della volgarità dello stile acchiappaclic. In tale articolo, il famoso giornalista polemizza con un dirigente scolastico che sarebbe persino bizzarro chiamare innovatore allorquando è uno dei tanti (non tantissimi, convengo) che, in questi mesi e in questi anni, sta curvando il tema della valutazione entro il quadro della normativa vigente. Molto semplicemente, Alfonso D’Ambrosio lo fa alla luce del sole e con qualche accorgimento comunicativo. La notizia vera, invero, è che moltissime scuole sono nell’illegalità in quanto aggrappate a prassi non legittimate da fonti normative reali (tanto è vero che molto spesso soccombono in giudizio). Molto più spesso, purtroppo, la normativa attuale è rispettata solo formalmente, ma completamente disossata dalle epistemologie pedagogiche che l’hanno generata.
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La pietra dello scandalo è la valutazione formativa. Il sottotitolo del pezzo polemico di Mario Giordano, infatti recita: “Letterine e commenti invece che voti: è l’idea di un preside padovano. Ma in aula occorre imparare grammatica, aritmetica e molto altro. Compiacere i ragazzi è nocivo. Soprattutto per loro”.
Come stanno davvero le cose? La normativa qui sopra evocata è sostanzialmente contenuta nell’Ordinanza n. 172/2020 per quel che riguarda la scuola primaria entro la quale, nel corso degli ultimi due anni scolastici, si sono sviluppate azioni formative delle insegnanti (nota n. 1) coerenti con la medesima nata alla luce di un Decreto legislativo, il 62/2017 (decreto delegato della Legge 107/2015, la cosiddetta “Buona scuola”) che ha un primo articolo che definisce il tema della valutazione per tutta la scuola italiana, mentre i successivi regolano quella del primo ciclo. Per quel che riguarda la scuola superiore, ci si deve riferire più precisamente anche al più antico DPR 122/2009 che resta fonte di riferimento per tutta la scuola.
Su queste fonti si è basata tutta la normativa sulla valutazione in emergenza, in particolare le linee guida sulla didattica digitale integrata di cui al decreto del Ministero dell’Istruzione n. 39/2000 e tutte le “sperimentazioni” che, in qualche caso, sono anche assurte agli onori della cronaca, come nel caso dell’esempio del liceo Morgagni di Roma che, molto semplicemente, ha adottato la valutazione descrittiva in itinere per lasciare quella numerica al termine del primo e del secondo quadrimestre come ancora richiede la Legge.
Contemporaneamente all’invettiva di Mario Giordano, si segnala un articolo a firma del vice direttore della testata, Reginaldo Palermo, che su La Tecnica della Scuola, riferisce di un caso apparentemente curioso: «Famiglia finlandese “scappa” da Siracusa: “Le vostre scuole sono troppo indietro, i nostri figli stanno seduti sulla stessa sedia per tutto il giorno”».
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L’impostazione dell’articolo di Mario Giordano è comprensibilmente scandalistica e, diciamocelo, nemmeno troppo larvatamente “bacchettona”. Dimentica, o ignora, il fatto che la scuola dove “si impara” non è certo quella che ha in mente lui, giacché quella da lui frequentata (classe 1966) ha escluso il 50% della popolazione dalle superiori, mentre quella attuale si fa carico della sua interezza. In maniera meno evidente, assistiamo quindi ad un fenomeno inclusivo che è partito con la “scuola media unica” nel 1962, ma che è sfociato in “Lettera ad una professoressa” nel 1967. Col prolungamento dell’obbligo scolastico e formativo fino a 18 anni, ormai vecchio di qualche lustro, la scuola si è riconfigurata senza troppi scossoni al fine di accogliere e istruire, anche se sarebbe riduttivo immaginare una scuola produttiva e selettiva del passato, migliore di quella attuale, perché quella del passato era largamente nozionistica e uccisa dalla disponibilità di conoscenze a portata di smartphone.
Le ricerche neuroscientifiche, sempre di più validano le intuizioni anticipate dalla pedagogia sperimentale ed è evidente a tutti il fenomeno della repulsione del cittadino medio di fronte allo studio, all’approfondimento culturale, alla fruizione di eventi culturali dopo la scuola. La scuola di cui ha approfittato Mario Giordano ha dato molto a lui, ma questo non significa che sia stata diffusamente efficace. Questo non è e ce lo mostrano le indagini sull’alfabetizzazione degli adulti, prima che quelle molto più famose delle prove OCSE-PISA e INVALSI.
La ricerca neuroscientifica, si vedano ad esempio i lavori divulgativi di Daniela Lucangeli (“Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere”, Erickson ed.) e di David Bueno i Torrens (“Neuroscienze per educatori”, il brucofarfalla ed.) o un testo più strutturato di David A. Sousa (“How the brain learns”, Corwin), mostra come sia necessario associare l’apprendimento al piacere. Molto semplicemente, le “pedagogie del sacrificio” sono scarsamente efficaci perché intercettano chi è strutturalmente portato al sacrificio (persino per ragioni patologiche), mentre trasformano in resistenti o refrattari tutti gli altri (ne ho scritto su Educazione aperta tempo fa in un articolo dal titolo “L’errore di reazione: refrattari al pensiero scientifico” già citato in un precedente su Gli Stati Generali. Ciascuno di noi può portare esempi di persone perfettamente istruite che non hanno toccato un libro, frequentato una mostra, assistito ad uno spettacolo teatrale dai tempi dell’università. O della scuola. Cosa ha ottenuto, quindi, quel genere di scuola? Non certo apprendimento, non certo predisposizione all’apprendimento, non certo le basi per il long life learning.
Le pelose retoriche che evocano vissuti elitari di un tempo che fu di Mario Giordano si schiantano quindi sulla realtà dei fatti, se li guardiamo con la lente dell’efficacia didattica, alla luce dell’analisi delle didattiche, sempre più sperimentali ed “evidence based” e se ci collochiamo entro i confini della ricerca scientifica che afferma cose tutto sommato molto semplici e intuitive, ma che non vogliamo vedere: un contesto facilitante, motivante e inclusivo, rispettoso della persona e dei suoi ritmi di apprendimento, facilita il benessere psicofisico e, con questo, costruisce apprendimenti più significativi e duraturi. Le alternative hanno fallito per decenni e falliscono ancora oggi, quand’anche non abbiamo gli occhi per vederlo, ma per questo ci aiutano i genitori finlandesi che dicono “il re è nudo”.
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Nota 1. Si farà uso del femminile sovraesteso tutte le volte che occorrerà comprendere soggetti plurali che, nella scuola, peraltro, sono statisticamente prevalenti su questo genere, al netto di possibili giudizi di valore.
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