Napoli
Poliziotti, vittime della loro vita: Napoli e Trieste unite nella tragedia
Venerdì pomeriggio due poliziotti sono stati uccisi in Questura a Trieste durante un controllo su un caso di rapina di uno scooter avvenuto in mattinata. I due agenti si chiamavano Pierluigi Rotta (34enne di Napoli) e Matteo De Menego (31enne di Velletri).
Alejandro Augusto Stephan Meran, di 29 anni, aveva rapinato un motorino. Suo fratello Carlysle Stephan Meran, di 32 anni, aveva chiamato la centrale operativa della polizia denunciando il fratello e proponendosi di accompagnare la polizia a recuperare il mezzo. Nella telefonata Carlysle Stephan Meran aveva anche specificato che il fratello soffriva di disturbi psichici, ma che non era in cura presso nessuna struttura sanitaria.
La polizia si era recata con il personale sanitario del 118 presso l’abitazione del Meran, che era stato collaborativo e si era fatto accompagnare insieme al fratello in Questura.
Una volta arrivati all’interno dell’Ufficio di Prevenzione Generale, l’uomo ha chiesto e ottenuto il permesso di andare in bagno e, mentre usciva dall’ufficio è riuscito a prendere la pistola d’ordinanza in dotazione a Rotta e ha sparato, uccidendolo.
L’agente De Menego è uscito dall’ufficio dopo aver sentito gli sari, a quel punto Alejandro Augusto Stephan Meran gli ha sparato tre colpi di pistola, uccidendo anche lui.
Una volta fuori dalla Questura ha prima cercato di rubare un’auto, e poi ha iniziato uno scontro a fuoco con alcuni agenti della Squadra Mobile che sono riusciti a ferirlo e a disarmarlo. Il fratello, nel frattempo, spaventato dagli spari ha cercato di scappare per i sotterranei della Questura, prima di essere bloccato.
Un caso simile, ma forse più efferato era accaduto anche a Napoli.
Era il 27 aprile 1993.
Una telefonata anonima aveva allertato la polizia e due auto erano partite, in direzione del quartiere Ponticelli.
I poliziotti esperti, in forza alla sezione Catturandi di Napoli, fermano quattro giovani, sembrano dei tossici decidono di portarli in questura.
Un’Alfa Romeo 33, di colore granata, guidata dall’agente scelto Michele Del Giudice, ventisette anni, di Maddaloni, in provincia di Caserta, con al suo fianco il sovrintendente capo Gennaro Autuori, quarant’anni, salernitano, trasportano due dei quattro.
Uno di loro aveva, forse, superato la frettolosa perquisizione, era riuscito a nascondere una calibro 6,35 nello slip.
L’auto con il sovrintendente Autuori e l’agente Del Giudice e con a bordo i due fermati, era rimasta ultima, aveva rallentato per il traffico e aveva perso i contatti con le altre vetture, all’altezza della sede del partito liberale e di fronte all’ ingresso dell’hotel Jolly.
Della circostanza si approfittò uno dei due sospetti a bordo.
I contatti con la centrale s’interrompe alle ventuno.
Dalla sala operativa, pensano che la pattuglia sia entrata in garage, ma gli altri agenti che arrivano, che avevano trasportato gli altri fermati, scoprono di essere soli.
Escono a piedi dal garage e trovano l’auto con la portiera aperta, ferma, finita contro un’altra auto.
Una macchia di sangue dove la portiera è aperta, quella dell’autista, l’ agente Del Giudice, il primo ad essere colpito, Gennaro Autuori, 35 anni andrà in coma irreversibile, poco dopo l’intervento disperato dei medici .
I poliziotti si avvicinano e scoprono i colleghi con insanguinati.
Michele Del Giudice è morto sul colpo. Gennaro Autuori è vivo ancora, ma dopo qualche parola, sviene.
Colpiti entrambi alla testa.
Nell’auto non vi è traccia dei due fermati.
Autuori viene estratto e trasportato subito all’ospedale “Vecchio Pellegrini”, dove viene dichiarato in coma irreversibile.
Il questore Lomastro dichiara:
– «Le pistole di ordinanza sono state ritrovate addosso alle povere vittime. Non erano stati disarmati dai malviventi. E non hanno compiuto alcuna leggerezza».
L’assassino è Giovanni Carola, che i suoi 27 anni li aveva consumati in gran parte dentro una cella. Stava scontando la condanna nel carcere di Foggia quando, due mesi prima, il magistrato di sorveglianza – in contrasto con il parere di Polizia e Carabinieri – aveva firmato un permesso di cinque giorni per buona condotta, scaduto il quale il malvivente era scomparso.
La questura era a trenta metri. Al maresciallo e al suo collega, quei due ragazzi sembravano solo spaventati. Non potevano temerli loro, due agenti della Squadra mobile, sezione catturandi, centinaia di arresti nella Napoli più violenta, ma sarà forse questa sicurezza a tradirli.
Saranno massacrati in macchina, colpiti alla nuca.
I due sospetti vennero arrestati alcuni giorni dopo, a seguito di una intensa caccia all’uomo.
Anche Nicola Barbato si sentiva sicuro.
Era a bordo di una fiat panda, il 25 settembre del 2015, con il suo collega, avvertiti di una probabile estorsione che si stava per compiere a Fuorigrotta.
Il malvivente, anche lui e’ salito sulla panda.
Dal sedile posteriore e ha premuto il grilletto della pistola prima di scappare.
Chi ha sparato lo ha fatto da dentro l’abitacolo e dunque è entrato all’interno dell’auto civetta per uccidere.
Il sovrintendente della Squadra mobile Nicola Barbato è colpito e lotterà tra la vita e la morte.
Riuscirà a superare ma la sua esistenza, non sarà più la stessa.
Bisogna sapere una cosa, la Polizia agisce seguendo i doveri in caso di arresto e di fermo dell’articolo 386 c.p.p.
Gli adempimenti che l’articolo 386 richiede sono, nell’ordine:
– la comunicazione immediata dell’arresto o fermo al pubblico ministero;
– le comunicazione (con consegna documentale) dei diritti all’interessato;
– l’informazione immediata al difensore di fiducia nominato dall’arrestato o da un suo familiare; ovvero, in caso di mancata nomina, la designazione di un difensore d’ufficio. Avuta la designazione, l’immediata informazione dell’arresto a detto difensore d’ufficio;
– l’avviso dell’arresto o del fermo ai familiari;
– la redazione del verbale di arresto;
– la messa a disposizione dell’arrestato al pubblico ministero, nel termine di ventiquattro ore dall’avvenuto arresto che ha luogo mediante consegna dell’arrestato alla casa circondariale del luogo in cui l’arresto o fermo è avvenuto, fatta eccezione per quanto indicato nell’articolo 558 c.p.p. circa le modalità di custodia dell’arrestato o fermato di cui nel prosieguo;
– la trasmissione entro il medesimo termine del verbale di arresto o di fermo al pubblico ministero del luogo in cui è avvenuto;
– qualora il fermo sia stato disposto da un magistrato diverso da quello del luogo in cui il fermo è avvenuto, la trasmissione del verbale relativo anche al pubblico ministero che lo ha ordinato.
L’inosservanza dei termini previsti dal comma 3 determina l’inefficacia dell’arresto e il conseguente obbligo di immediata liberazione.
A questi adempimenti, per così dire formali, si aggiunge un’altra serie di attività e di accorgimenti, tecnico-giuridici, operativi e comunicativi per una corretta esecuzione delle misure di cui si discute.
In merito alla perquisizione, l’articolo 352 difatti stabilisce:
– “quando hanno fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse ovvero che tali cose o tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso”.
Va da sé però che la perquisizione personale deve essere sempre eseguita sia prima di salire sull’auto di servizio, sia successivamente quando si arriva nella sede del comando/caserma.
Ancor prima di muoversi, con la precisa intenzione di concretare un arresto od un fermo, è buona norma che l’ufficiale di p.g. presente o l’agente di p.g. più anziano valuti se sussistono le condizioni per eseguire la misura assicurando ragionevoli condizioni di sicurezza, per il personale operante, per i terzi e per la stessa persona arrestata.
Si tratta di una valutazione di difficilissima portata affidata alla competenza e alla esperienza del singolo, al netto di situazioni oggettive nelle quali è esclusa ogni possibilità alternativa agli agenti operanti, vuoi per la inevitabile immediatezza delle reazioni, vuoi per la particolare tipologia di reato che impongono, in ogni caso, la obbligatorietà dell’atto interruttivo dell’azione illecita e del tentativo di arresto del colpevole.
Si tratta, in altri termini, di regole di comune prudenza che, al di là del rigoroso rispetto di regole formali, possono condizionare il nostro comportamento operativo.
Valutato l’arresto possibile, l’ufficiale di p.g. operante o l’agente più anziano deve immediatamente porre in essere le misure di ingaggio preventive acquisite prima dall’esperienza e poi nei corsi di tecniche tattico-operative, attuando l’uso della forza ed il contenimento della persona arrestata o fermata.
Difficile, se non impossibile, fornire indicazioni precise circa le tecniche di contenimento e di uso della forza.
Si richiamano a tal proposito gli accorgimenti comunamente dati nelle formazioni tecnico-pratiche:
– l’uso della forza è ovviamente consentito nei limiti in cui si manifesta necessario per vincere una resistenza;
– per l’uso legittimo delle armi vi è la complessa giurisprudenza a corredo dell’articolo 53 c.p.;
– per l’immobilizzazione, l’attivazione delle misure di contenzione e l’apposizione delle manette si consiglia di seguire le indicazioni fornite nei corsi di tecnico e tattiche operative, ma resta ovvio ed inteso che ogni situazione può richiedere anche altre forme, comunque utili e funzionali alla soluzione del problema;
– i sistemi di contenimento e le manette devono essere mantenuti, ovviamente, durante tutte le operazioni, compreso il trasporto presso il comando ed interrotti solo al momento della definitiva custodia dell’arrestato (o fermato) e sempre che ciò non risulti necessario anche dopo;
– i sistemi di contenimento devono essere interrotti solo laddove, quando ormai ci si trova nelle idonee strutture o, comunque, in luoghi di comando/caserme sufficientemente sicuri, non sussistono più motivi di pericolo. In caso contrario potranno essere mantenuti durante l’intero periodo di custodia, se del caso interrotti dietro sorveglianza diretta, solo in caso di necessità fisiologiche o per mangiare o bere;
– i sistemi di contenimento devono essere poi comunque ripresi durante il trasporto fino al luogo di svolgimento dell’udienza di convalida ove, anche a tali fini, si seguiranno le indicazioni fornite dal giudice.
Rimanendo in ambito, l’uso della forza e degli strumenti di contenimento, è il caso di ricordare che l’arresto ed il fermo si distinguono, anche sotto questo aspetto, dagli accompagnamenti per identificazione di cui sopra o per gli altri accompagnamenti disposti dal giudice o dal PM.
Diversa è, infatti, la motivazione che conduce alla privazione della libertà personale, anche se nella stragrande maggioranza dei casi, le due misure finiranno per sovrapporsi, atteso che durante un arresto (od un fermo), vi sarà verosimilmente anche la necessità di procedere ad una identificazione forzosa.
Resta il fatto però che la mera ipotesi di accompagnamento, prescinde, di solito, dalla commissione di reati o, comunque, può presupporre la commissione di reati per cui o è cessato lo stato di flagranza ovvero che non prevedono l’adozione di tale misura.
Pertanto risulta incompatibile con la stessa natura della misura l’uso della forza.
Se poi, si dovesse registrare una opposizione fisica all’accompagnamento ci troveremmo di fronte ad un reato di resistenza o violenza a pubblico ufficiale per cui è previsto l’arresto in flagranza facoltativo. A questo punto, pertanto, l’uso della forza sarebbe conseguente all’arresto da eseguire e non al fermo per identificazione.
Sembra un paradosso, ma in questi casi, nell’analisi delle informazioni, ma anche delle indagini effettuate, non sembrano ricorrere le condizioni relative all’applicazione delle prassi e delle procedure su elencate.
Allora si può dire che sia stata una fatalità? Il tragico destino di uomini che in quel momento compivano il loro lavoro ed il loro dovere?
Intanto, si piange e si resta impietriti ed impotenti, davanti alle vite che si perdono in un modo assurdo.
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