Musica
Altre/i giovani: primo appuntamento con LIET
Chi c’è dietro l’etichetta “giovani”? Quali sono le facce reali che troviamo dentro la dicitura “le nuove generazioni”?
I discorsi intorno a questi due concetti tendono a mostrarci con prepotenza le zone d’ombre, le falle di quelli e quelle che saranno la classe adulta della società di domani: senza fare distinzioni, non vengono più riconosciute le peculiarità e i talenti di ognuno, ma ciascuno di loro è costretto a portare la maschera imposta, omologata e omologante, del capro espiatorio, del grande fallimento, valido di fatto solo per alcuni, come in ogni epoca e come in ogni fascia anagrafica.
Mettendomi come sempre in controtendenza, provo a mostrarvi, attraverso una serie di dialoghi che inauguriamo oggi, l’altro lato della medaglia, il lato fatto di ragazze e ragazzi che, nonostante l’elevata incertezza sociale nella quale si trovano a crescere e tutte le difficoltà proprie della gioventù di ogni tempo, studiano, si impegnano e, soprattutto, provano ancora a crederci.
La prima ospite è Giulia Baldissera, classe 1997.
Cara Giulia, prima di parlare del tuo album di esordio, vorrei ti presentassi e, soprattutto ci raccontassi quale e come è stato il tuo primo appuntamento con la musica. Da dove arriva LIET? Chi è?
LIET è il nome che ho scelto per il mio progetto circa un anno fa, quando stavo lavorando ai provini del disco con il mio produttore Andrea Lombardini. Il lockdown era iniziato da pochissimo e ci siamo ritrovati barricati in casa, costretti a lavorare a distanza. Per me è stato difficilissimo, molte volte scomparivo per giorni perché il mio cervello era andato totalmente in tilt e non sapevo come gestire la cosa, ma il vivere così tante emozioni contrastanti mi aveva fatto comprendere la necessità di trovare un nome d’arte: il mio cognome iniziava a starmi un po’ stretto e dovevo metterlo da parte.
Questa è la mia prima pubblicazione in assoluto; sono molto agitata e felicissima allo stesso tempo. I brani racchiusi in questo album sono stati scritti tra il 2016 e il 2019, praticamente quando vivevo a Milano per l’università, anni davvero importanti, vissuti con totale ingenuità.
Il mio primissimo approccio con la musica è avvenuto più o meno all’età di dieci anni, quando mia madre mi iscrisse a un corso di chitarra classica: non studiavo mai, era una cosa che detestavo.
Solamente verso i quattordici anni ho iniziato a sentire l’esigenza di esprimermi attraverso la musica, e le prime canzoni (orribili) ho iniziato a scriverle proprio durante l’inizio del liceo.
Una delle tracce del tuo progetto è Eterna, un titolo in notevole controtendenza con l’attualità che tende a farci appiattire tutto su un unico orizzonte temporale fatto solo di presente.
Cos’è Eterna? Quanta fatica si fa a immaginare qualcosa che vada oltre l’oggi?
In questi giorni sto leggendo i diari di Sylvia Plath e a un certo punto mi sono ritrovata in questa frase: «Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore». Eterna l’ho scritta pensando al momento che stavo vivendo: i miei vent’anni, che dentro di me dureranno per sempre. Io mi rimprovero spesso perché mi vergono molto di come, mai soddisfatta di me stessa, un po’ come Sylvia. Qualche anno fa ho capito di volere fare la cantautrice e ovviamente cercavo di nascondermelo in tutti i modi, solo al pensiero soffrivo molto perché è una cosa che avvertivo come più grande di me. Oggi però ci voglio provare davvero ed è vero che è molto difficile immaginare il domani ma, canta Vasco Brondi, «Nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci».
Diversi studi relativi ai cambiamenti che occorreranno post-pandemia ci parlano di condizioni lavorative pessime per i giovani tra i venti e trent’anni e di un’incertezza sociale, con la quale dovranno confrontarsi, ancora più marcata di quella pre-Covid.
Cosa significa fare musica, per una ragazza nata alla fine degli anni Novanta, in un contesto come quello attuale e sotto al peso di simili previsioni?
Il settore dello spettacolo è collassato, alcuni club stanno chiudendo definitivamente, ci saranno pochissimi spazi per concerti, ma non tutti se ne sono ancora resi conto purtroppo. Ho amici che hanno cambiato lavoro per sopravvivere e non ti nascondo che per me assistere a tutto questo è davvero demoralizzante. Ci sono giorni in cui vorrei buttare tutto all’aria, però poi mi ricordo il motivo per cui ho deciso di fare tutto questo: per raccontarmi la verità. Sto per concludere l’università e tra i miei piani quest’anno, oltre alla laurea, rientravano i concerti, ma non credo che sarà possibile suonare molto quest’estate e non so nemmeno se uscirà quest’anno il disco a questo punto. Non è facile rimanere chiusi in casa senza stimoli, convivendo con l’asia. Parlo spesso con altri amici musicisti che si sentono come me: ci aiutiamo a vicenda, però a quanto pare non basta.
Nella canzone Eterna ci sono queste parole «dimmi qual è il colore a cui devo rinunciare».
A cosa ci tocca rinunciare? E per cosa ci rinunciamo?
Quando ho scritto quel verso pensavo al perdono che per me non è obbligatorio: posso scegliere anche di non perdonare. Io l’ho fatto, anche se è stato doloroso ma giusto. Imparare a ricucirsi da soli per me è stato importante, dovevo farcela senza aiuto.
Oggi invece siamo sottoposti a tante rinunce, lo stiamo facendo con fatica e a quanto pare non c’è un’altra soluzione possibile, ci toccherà soffrire in silenzio ancora per molti mesi, proveremo a riaccendere la creatività. Mi vengono in mente questi versi di Vladimir Majakovskij: «Bisogna / strappare / la gioia / ai giorni futuri. / In questa vita / non è difficile morire. / Vivere / è di gran lunga più difficile».
Di questo progetto tu sei voce e chitarra acustica.
Ci racconti la tua ricerca sulla parola e sui suoni, su come avviene l’incontro e dove sono, dentro questo progetto, i tuoi riferimenti musicali e letterari?
Quando scrivo solamente, parto da alcuni appunti che prendo durante le letture e anche dalle pagine di diario che mi impegno a tenere quotidianamente. Amo molto la poesia Cani Romantici di Roberto Bolaño: la leggevo spesso nel periodo in cui stavo scrivendo Eterna e mi soffermavo sempre sui versi «E se avevo un sogno / il resto non contava»; era proprio ciò che stavo vivendo e alla fine ho deciso di omaggiarlo inserendo alcuni rifermenti molto espliciti. Scrivere il testo di Acqua del cielo è stato un po’ complicato, perché ero partita con un’intenzione e sono finita a parlare di paura; anche se la connessione non è immediata, la poesia Acqua del Cielo di Franco Fortini sicuramente mi ha mosso qualcosa di buono, anche se le mie poetesse del cuore rimangono Patrizia Cavalli e Francesca Genti. Per il sound di questo disco il mio produttore si è ispirato molto ai Verdena, la mia band italiana di riferimento: all’interno dell’album, infatti, ci sarà una cover di Puzzle e ad altri miei modelli, come Laura Marling e Jeff Buckley. I miei maestri di scrittura rimangono però Cristina Donà e Vasco Brondi.
Il disco è pronto. So che ti stai confrontando con alcune case discografiche per avere un’etichetta.
Cosa ti auguri per questo lavoro? A quale destino vorresti andasse incontro e tu con lui?
Non mi aspetto niente, mi auguro solamente che arrivi a chi deve arrivare. Lavorando a questo disco mi sono resa conto del valore che ha una squadra: con me ho avuto delle persone importantissime e quello che ascolterete nei prossimi mesi è il frutto anche del loro lavoro. Sono molto grata ad Andrea Lombardini (produzione artistica, basso elettrico, chitarre elettriche), a Davide Colletto (Batteria), ad Andrea Beninati (Violoncello), a Giacomo Benvenuto (Lap steel guitar), ad Andrea de Marchi (Virtual Studio, registrazioni), ad Antonio Nappo (Q Recording Studio, missaggio) e anche al mio team creativo composto da Mattia Gastaldi (La Tana Fotografica), Gina Brilly (Art Direction) e Francesca Bazzoni (Artwork).
Che Mi Lasci Indietro: https://www.youtube.com/watch?v=mN4oaPySBro live @Argo16, Voci Sparse.
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