Musica

La musica bisestile. Giorno 263. Milt Jackson

14 Gennaio 2019

Per tutti coloro che non hanno ancora scoperto il sound particolare e profondo dei vibrafono e dello xilofono, il più grande di tutti i suoi interpreti

WIZARD OF THE VIBES

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La storia del jazz ricorda due grandi vibrafonisti, che negli anni sono stati capaci di imporsi su altri strumenti e di “prendere possesso” di un quintetto o addirittura di una grande orchestra. Si tratta di Milt Jackson e Lionel Hampton. La differenza tra i due è enorme, e parte dal semplice dettaglio: suonavano due strumenti diversi. Il vibrafono è uno strumento non ancora del tutto codificato, e quindi, ogni artista, è piuttosto libero nello stabilire la frequenza delle oscillazioni dei tasti, il fatto che siano di metallo o di legno, e di quale metallo siano composti. Lionel Hampton suonava un vibrafono veloce e metallico (10 rivoluzioni al secondo), mentre Milt Jackson suonava uno strumento che si accostasse il più possibile al piano, ed il meno possibile ad uno strumento ritmico, ed aveva infatti solo 3,33 rivoluzioni al secondo.

“Wizard of the vibes”, 1952

Come si fa ad accorgersene? Dal tremolo. La nota di Milt Jackson resta più a lungo nell’aria, risuona, e produce appunto ciò che viene chiamato tremolo e che non è altro se non una funzione dell’organo, più che del pianoforte. Va da sé che Milt Jackson sceglie questo strumento alla fine degli anni 30, mentre Lionel Hampton era esploso negli anni delle grandi orchestre, vent’anni prima. Ma non per questo Milt Jackson è più vetusto, anzi. A mio parere questo suono “largo” gli dà molte possibilità in più, e non lo fa mai sembrare sottile (come spesso è la chitarra nel jazz) ma gonfio, come un sax baritono o una tromba.

Jackson arriva al successo negli anni della Seconda Guerra Mondiale, scoperto da Dizzie Gillespie, Certo, aveva ascoltato Lionel Hampton, specie negli anni in cui suonava nell’orchestra di Benny Goodman, ma quando aveva avuto la possibilità di fare qualcosa di proprio, aveva scelto una formazione veramente inaudita: lui, Ray Brown al basso (scelto come solista di punta), John Lewis al piano, e Kenny Clarke alle percussioni. Quest’ultimo, infatti, non suonava solo la batteria, ma era considerato il più grande al mondo nell’uso dei cimbali, ovvero di uno strumento difficile da usare, un’estensione del triangolo fino ad avere un effetto polifonico difficile da gestire, se non banalmente come elemento ritmico occasionale.

La musica di questo quartetto è complessa e sofferta, anche quando suonano degli standards della musica jazz, e forse, a causa di una mia superficialità, mi piacciono meno dei dischi in cui Milt Jackson è più rotondo, ha uno spazio più sereno, nell’ambito di un sestetto in cui sono venga lasciato solo, ma venga sorretto, se necessario, persino da un uomo ai fiati – generalmente, se hai il vibrafono, non usi i fiati. Il disco che ho scelto è quello più famoso e più consolatorio, quello in cui Jackson si preoccupa di avere una musica stupenda ed intensa, e non la prova del fatto che lui sia bravo. In questo disco c’è “Bags’ groove”, che è una sua composizione che gli valse una medaglia e la cattedra della Berklee College of Music di Boston, l’unica grande vera università del jazz al mondo.

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È morto a 76 anni, quando ancora insegnava, di cancro al fegato, lasciando una moglie, con cui era sposato da quando aveva 26 anni, e con cui (si raccontava) non aveva mai alzato la voce, mai litigato, mai avuto un solo attimo di crisi. In proposito disse, in un’intervista del 1979: “Ho sempre avuto il blues, ho cercato di portarlo nella mia musica, ma è stata lei, ogni sera, a riportarmi a riva, a casa, in un luogo in cui io mi sentissi sicuro, e per questo dono che mi ha fatto le ho dato l’unico cuore che ho, e non me ne sono mai pentito”.

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