Musica
I Tuareg e la musica, artisti che dovete ascoltare
Dopo aver analizzato (trovate qui l’articolo) a grandi linee quello che è il panorama contemporaneo della musica africana, vediamo di iniziare ad approfondire i suoni legati ai vari luoghi più particolareggiati, appartenenti ad una popolazione che si distingue dalle altre per aver intrapreso un percorso originale e diciamo “inimitabile”.
Parliamo oggi dei tuareg, una delle popolazioni nomadi più famose del mondo, allo stesso tempo affascinante e ricca di tradizione.
Cosa significa, prima di tutto, “tuareg”? Con il termine si identifica una popolazione di oltre mezzo milione di persone, soprattutto composta da nomadi e stanziata nelle zone desertiche del deserto del Sahara. Le zone in cui si muovono gli appartenenti a tale raggruppamento sono molto estese e comprendono nazioni del Nord e dell’Africa centrale, dall’Algeria alla Libia, al Mali al Burkina Faso, ma anche in Ciad dove gruppi nomadi del tutto simili ai tuareg vengono però chiamati Kinnin.
I tuareg non si definiscono come tali, ma preferiscono chiamarsi come Kel Tamahaq, ovvero “coloro che parlano la lingua Tamahaq”, noi li conosciamo con il termine arabo che, in una delle sue declinazioni magrebine significa “abitante della Targa”.
La storia di questa popolazione africana si perde nella notte dei tempi, tanto che persino gli storici fanno fatica a risalire ad una origine precisa. Quello che sappiamo di loro è che sono sempre stati dei gruppi sociali molto abili a vivere nel deserto, basando la loro sopravvivenza sull’allevamento e il commercio di sale, spezie e avorio oltre le sabbie del Sahara. Li conosciamo per aver scelto come animali di tutti i giorni i dromedari con cui si muovono attraverso i lunghi e faticosi tragitti sotto il sole, animali dal fisico robusto con un’ottima resistenza al calore e alla siccità. Il rapporto tra dromedari e tuareg è quasi simbiotico e vanta pochi eguali nel resto del mondo.
In quanto nomade, la popolazione tuareg utilizza, per accamparsi, elaborate tende che vengono montate estemporaneamente nei luoghi di sosta. Sarebbe impossibile pensare ad essa senza la sua peculiarità di movimento all’interno del deserto, e proprio per mantenere tale esclusività i tuareg hanno dovuto combattere e fronteggiare le varie colonizzazioni cui sono stati sottoposti i paesi loro ospitanti. Per loro si è sempre trattato di difendere le tradizioni, a livello umano ma soprattutto a livello politico. È difficile poter insegnare ad un nomade parole come sedentarietà ed emarginazione, eppure i tuareg hanno dovuto abituarsi a frequentare luoghi in cui l’acqua scarseggia e l’occidentalizzazione dell’Africa inizia a prendere luogo.
Fisicamente li conosciamo come una popolazione dall’aspetto robusto, dall’alta statura e da un fisico sempre molto tonico, hanno visi allungati, occhi scuri e capelli neri e ovviamente un incarnato principalmente scuro. Dopo aver combattuto contro gli Arabi, iniziano a praticare la religione musulmana sebbene ne facciano una interpretazione molto originale, conservando le proprie pratiche animiste. Col passare dei secoli i tuareg hanno mantenuto la loro lingua e il loro alfabeto, il cosiddetto “Tifinagh”, costituito da forme geometriche scritte in orizzontale, verticale, da destra a sinistra, dall’alto al basso, con cui ribadiscono la loro creatività e la loro libertà di espressione.
Abbiamo detto che i tuareg hanno un loro modo di interpretare persino l’Islam ebbene è utile sapere che le donne, pur essendo musulmane, non portano il velo, possono avere diversi partner sessuali prima del matrimonio e possono divorziare in qualunque momento. Diciamo che tra i nomadi del deserto vige una cultura progressista, sia a livello religioso che civile. Le donne sono le uniche ad avere in mano la casa e gli animali e quando divorziano mantengono le proprietà acquisite, costringendo gli ex-mariti a tornare nelle famiglie di appartenenza. L’altra faccia della medaglia però è molto pesante, soprattutto negli ultimi anni il fondamentalismo islamico di gruppi come Boko Haram ha provocato molti movimenti e molte uccisioni tra le varie tribù nomadi.
I tuareg sono nati liberi, avvolti nei loro abiti vistosi hanno imparato a viaggiare nel deserto con l’aiuto delle stelle, nessuno meglio di loro ha avuto modo di ascoltare il canto dello spazio unito ai pensieri e allo spirito dell’acqua e del vento, annusando il profumo di un continente antichissimo di cui sono sicuramente tra i figli prediletti.
La musica
La creatività dei tuareg è da ricercare nelle testimonianze liriche e musicali. Da centinaia di anni musica e poesia vanno di pari passo e vengono accompagnati da due strumenti fondamentali come il tamburo tindé e il violino con una corda chiamato imzad, rigorosamente suonati dalle donne. Gli uomini suonano il liuto, il flauto e tengono il ritmo con il battito delle mani. Il genere principale interpretato dai tuareg è quello tradizionale, canzoni lente, accompagnate dagli imzad, suoni che vengono riproposti spesso di fronte alle tende, persino i bambini imparano presto a suonare e si accompagnano con il fadangama, un piccolo strumento a una corda.
In tempi più recenti i tuareg hanno fatto propri ritmi come quelli blues e rock dandone una personale interpretazione, affidandosi a suoni tribali che accompagnano virtuosismi che non hanno nulla da invidiare a quelli del rock che conosciamo noi. Molti degli assoli chitarristici che troviamo nelle composizioni contemporanee si possono assimilare all’esperienza Electric blues degli anni ’60-’70 discostandosi però, ovviamente, come tematiche e aspirazioni dalla musica tradizionale americana popolare.
Sebbene nel tempo i temi e gli stili si siano affinati e abbiano sviluppato una concretezza, quello della nostalgia è sempre stato un argomento molto ricercato nei testi, spesso impenetrabili, di band come i Tinariwen che possiamo definire come i capostipiti del tuareg rock contemporaneo. Vediamo ora quali sono gli artisti tuareg che vale la pena conoscere per capire meglio la loro direzione.
Tinariwen
Partiamo con le basi, prima di ogni altra band, dovete a tutti i costi prendere in mano un disco dei Tinariwen, inserirlo nel vostro stereo ed iniziare ad ascoltare. Quello che avrete nella vostra stanza, sarà il suono del più famoso, intrigante e ipnotico gruppo del deserto africano che avrete mai ascoltato. Letteralmente chiamati “deserti” i Tinariwen trasudano nomadismo da ogni poro, portano con se una cultura millenaria e anche la difficoltà dei tempi moderni, il terrore del fondamentalismo, i terremoti politici e culturali che li hanno costretti a stare lontani dalla loro terra d’origine, il Mali, e rifugiarsi nelle diverse oasi per ottenere ristoro. Prima di tutto siamo di fronte ad una band cardine della musica africana contemporanea, alla costante ricerca di un equilibrio musicale che come le stelle, guida la loro esperienza di musicisti verso terreni inesplorati e ricchi di fascino. “Il migliore album dei Tinariwen non è ancora stato registrato. E forse mai lo sarà”, scrivono sul loro sito internet, una massima che esprime la loro fierezza, una sana autocritica e una vaga e lieta malinconia (la cosiddetta assouf). Composto da improvvisazioni eseguite sotto un cielo immenso, suonando di fronte “a un pubblico di scorpioni”, l’ultimo album della band, pubblicato lo scorso settembre è stato registrato in presa diretta sotto una tenda montata tra le dune. I contenuti sono poi stati elaborati da alcuni amici occidentali come Warren Ellis, Stephen O’Malley e Cass McCombs che hanno messo insieme le varie tracce dando vita ad un ottimo blues del deserto, in cui non mancano momenti elettrici ma anche esperienze tradizionali come i vocalizzi femminili detti zaghareet.
I Tinariwen, con alle spalle oltre 20 anni di attività, rappresentano la sintesi perfetta tra antico e moderno, tra sacro e profano, dando vita ad una musica istintiva, spesso primordiale con accenni alla modernità vissuta con distacco. Sono la band giusta per iniziare a scoprire i tuareg e il loro rock.
Tamikrest
I Tamikrest sono la mia band preferita in assoluto, cercherò di parlarne con distacco ma al cuore è difficile poter comandare.
Che dire? Innanzitutto siamo di fronte ad una band del Mali, di etnia tuareg che si è formata circa 15 anni fa da musicisti che provengono dalla zona di Kindal. Guidati dal cantautore Ousmane Ag Mossa, i Tamikrest (il cui nome significa alleanza, unione) fondono la musica rock e blues ad una più tradizionale, mettendo insieme chitarre elettriche, djembe e percussioni, cantando spesso nella loro lingua originale: il tamasheq. Se c’è una cosa che si portano dietro, è sicuramente la partecipazione alla guerra per l’autonomia del popolo tuareg, iniziata negli anni ’90, in cui molti dei loro familiari morirono. I Tamikrest sono però anche l’esempio di come la modernità abbia influito positivamente nella loro crescita musicale. È grazie ad internet che la band di Mossa viene a conoscenza di artisti rock e blues contemporanei a cui va gran parte dell’ispirazione, soprattutto per le ultime uscite discografiche. Ma è altresì importante, per loro, aver partecipato al cosiddetto Festival del Deserto, che si è tenuto nel 2008 ad Essakane dove hanno preso i contatti con i loro primi produttori e si sono fatti conoscere come eredi di una band importante come i Tinariwen.
Nei testi, la band tuareg, racconta le problematiche quotidiane, rivelandosi meno politicizzati di altri colleghi ma non disdegnando episodi crepuscolari o notturni, improntati anche su una sorta di psichedelia desertica in cui il suono delle chitarre ha un ruolo decisivo.
I Tamikrest si distinguono per l’intensità delle proprie canzoni, sono molto più legati al rock occidentale che alle tradizioni, ma allo stesso tempo portano con sé diversi aspetti della musica africana, soprattutto nei brani più lenti, sentiamo come il riposo di una notte fresca nella tenda, mentre in quelli più veloci possiamo ascoltare elementi tipici della cultura dell’Africa occidentale, con assoli che si discostano dal canone dei tuareg.
Toumast
Letteralmente “il popolo” in lingua tamasheq, i Toumast sono una band composta essenzialmente da Moussa Ag Keyna e Amintou Goumar che iniziano a suonare insieme nei primi anni ’90. Nella musica dei Toumast ritroviamo una maggiore sensibilità verso la disperata vita dei nomadi all’interno del deserto africano, ma soprattutto dei difficili rapporti con la modernità che spesso è coincisa con una repressione politica che ha reso difficile la sopravvivenza dello status “nomade” dei tuareg. Una delle peculiarità della band è sicuramente una spiccata propensione per il canto, pratica musicale che i nomadi praticano ancora oggi quando vanno a cercare acqua e durante gli spostamenti assieme ai cammelli, cantare è simbolo di vita e anche di resistenza, quella che i tuareg hanno dovuto opporre ai governi del Mali e del Niger per riconoscere la propria autonomia. Molti giovani, negli anni ’90, si unirono al Fronte di Liberazione dei Tuareg e si addestrarono nei campi militari libici, proprio come Moussa Ag Keyna. Una sorta di addestramento Kalashnikov e chitarra elettrica, un periodo in cui si cantavano canzoni sulla guerra e sulla ribellione. D’altronde la musica ha sempre avuto un ruolo rilevante per la cultura tuareg diventando parte essenziale nella battaglia contro i regimi politici, per i Toumast è un modo per aiutare il popolo a trovare la libertà, tanto che nelle prime canzoni scritte da Moussa si esortavano gli uomini a combattere a fianco dei ribelli, alla ricerca di un posto sicuro in cui vivere. Nel 1994 Moussa fu ferito proprio durante una battaglia e si trasferì in Francia. Da quel momento, la leggenda vuole che il giovane chitarrista decise di combattere con la sua arma sonora, ma dovette far fronte alla gravissima perdita di alcuni cugini, membri della band, che vennero uccisi dopo la firma del trattato di pace tra il Fronte di Liberazione Tuareg e il governo del Niger. Una storia dolorosa dunque, che per i Toumast è sfociata in canzoni molto importanti, che affondano le radici nei suoni del deserto, raccontano le brutture di un mondo ma trasudano anche di passione, ritmo e vibrante melodia.
Bombino
Al secolo Goumar Almoctar, Bombino è uno dei più conosciuti cantautori tuareg in circolazione, cresciuto in Niger, ad Agadez, proviene da una tribù che da secoli lotta contro l’imposizione dell’Islam più severo. La sua vita è all’insegna del nomadismo, durante le lunghe traversate con la famiglia si è esercitato sin da bambino con la sua chitarra, tenendola sempre al proprio fianco, pronto ad imparare nuovi esercizi e nuove canzoni. Se c’è una cosa che differenzia Bombino dagli altri artisti tuareg è proprio la tecnica con cui è cresciuto, diventando prima allievo del celebre chitarrista Haia Bebe e poi rimanendo un grande appassionato di eroi del rock come Jimi Hendrix e Mark Knopfler di cui studia ogni mossa mentre è al pascolo assieme alla sua famiglia tra Algeria e Libia. Come è accaduto per altri esponenti della musica tuareg, anche Bombino ha dovuto affrontare il dolore per la perdita di amici musicisti, eventi da cui ha trovato il modo di reagire destinando le proprie energie alla musica, 24 ore su 24, ai massimi livelli.
Proprio la sua tenacia e la sua esperienza lo portano ad emergere ben presto tra le varie band della sua Africa, venendo a contatto con musicisti come Keith Richards e Dan Auerbach dei Black Keys che riesce a convincere Bombino a partire per gli Stati Uniti a registrare il suo terzo disco, Nomad, che lo farà conoscere a tutto il mondo.
Se ascoltate Bombino ovviamente vi verranno alla mente i Tinariwen, d’altronde loro sono i maestri di tutti gli artisti tuareg che durante la loro carriera hanno dovuto sempre confrontarsi con loro. Bombino però riesce a sfornare melodie elettrizzanti, che accompagnano inni di rivoluzione e ribellione, una sorta di blues del deserto molto vicino agli anni ’70 in cui si respira freschezza ma soprattutto desiderio di pace e di libertà. “Se il popolo dei tuareg fosse solo un corpo, la musica sarebbe il sangue che fluisce attraverso di esso e gli dà movimento e vita”, ha detto Bombino in un’intervista e credo che spieghi bene il suo modo di intendere l’appartenenza ad una popolazione e alle sue tradizioni.
Abdullah Ag Oumbadougou
È uno dei maestri di Bombino nonché uno dei più alti rappresentanti del moderno suono del deserto africano. Abdullah è famoso per aver messo in connessione la tradizione tuareg con l’esperienza più elettronica della musica contemporanea. Nelle sue composizioni si possono ascoltare chitarre, percussioni e drum pad che riescono a dar vita ad un’atmosfera ipnotica molto libera e spaziante, diventando quasi una musica ballabile, comunque calda, intensa e coinvolgente.
Purtroppo non esistono molte registrazioni di Abdullah Ag Oumbadougou, ma possiamo ascoltare con estrema gioia il suo album, registrato nel 1995 in Benin, intitolato Anou Malane, in assoluto una delle prime registrazioni in studio di musica tuareg. All’eleganza e alla linea melodica delle canzoni di Abdullah si accostano anche tematiche legate alla ribellione, molti dei canti sono rivolti ai combattenti sparsi nel deserto durante la ribellione tuareg diffusasi in Niger e in Mali. Nel disco si possono ascoltare anche derive afro-funk, un uso acerbo della drum machine e un particolare gusto estetico che lo hanno fatto diventare un classico per la musica africana, anche per quella che si ascolta quasi esclusivamente nelle sale da ballo. Ancora oggi, 25 anni dopo ha un suono fresco e moderno e si fa ascoltare con trasporto.
Les Filles De Illighadad
Avevamo detto che le donne possono vivere in una cultura essenzialmente progressista nella popolazione tuareg ed ecco che abbiamo modo di avere un esempio di come tre di loro hanno avuto la bellissima e fortunata idea di formare una band e suonare musica assieme. Le tre giovani tuareg sono guidate dalla chitarrista Fatou Seide Ghali e provengono dal villaggio di Illighadad, nel cuore del deserto del Sahara. Durante le feste, le donne tuareg non si fanno tanti problemi a prendere in mano gli strumenti e iniziare a cantare con il loro tipico accento e così fanno anche Les Filles de Illighadad che mescolano blues, rock elettrico, assieme a tamburi tradizionali, spesso realizzati in pelle di capra, e si affidano a molti strumenti “acustici” rendendo la loro esperienza moderna ma allo stesso tempo ancestrale. Cosa possiamo ascoltare? Beh Fatou, cresciuta da autodidatta, spesso si lascia andare a riff di chitarra invidiabili sostenuti da ritmi coinvolgenti e armonie vocali d’effetto e mai banali e compone poesie che parlano dei propri avi, della vita quotidiana e ovviamente dell’amore, lasciando da parte la ribellione e la resistenza cui sono molto più legati i brani di altre band maschili.
Mdou Moctar
Se i Tamikrest sono la band che ho sempre ascoltato con maggior trasporto, la musica di Mdou Moctar è sicuramente la più energica che io abbia ascoltato provenire dalle sabbie del Sahara. Originario del Niger, Mdou ha vissuto sulla propria pelle la difficile convivenza con l’integralismo islamico ma soprattutto con la povertà. Ha imparato a suonare lontano da tutti con uno strumento autocostruito, fatto di legno e pezzi di bicicletta, prima di potersi permettere una chitarra elettrica e soprattutto un amplificatore. Quello che ne è uscito è stato un suono che possiamo definire epico. Moctar è un musicista ineffabile e un chitarrista che non ha nulla da invidiare a Bombino o altri importanti esponenti del tuareg rock contemporaneo, anzi. L’approccio di Moctar alla musica è un’esperienza totalizzante, travolgente, piena di tecnica ma anche di cuore, abbandonandosi spesso alle esperienze occidentali più conosciute: Jimi Hendrix, Van Halen, Prince.
Se c’è un’altra cosa che possiamo dire di Moctar è che molto probabilmente se non ci fosse stato internet, gli smartphone, il bluetooth, oggi non conosceremo le sue canzoni. È proprio ad una rudimentale tecnologia che si deve la nascita dei suoi pezzi, soprattutto la loro trasmissione, come è accaduto per tanti altri artisti che sono riusciti anche a mettersi insieme e dar vita ad una compilation molto interessante come “Music from Saharan Cellphones”.
Ascoltate una canzone come Anna, contenuta nel suo ultimo disco, troverete il modo di attraversare il cielo notturno del deserto con la forza di una chitarra.
Terakaft
I Terakaft sono originari del Mali e il loro nome significa “carovana”. Condividono la nascita con i Tinariwen con cui spesso si esibiscono dal vivo condividendo il repertorio. Quando si ascoltano le loro canzoni, si pensa subito al deserto, alle lande desolate solcate dai passi di un cammello, mentre le percussioni richiamano lo spirito comunitario e coinvolgente delle popolazioni del Sahara.
Facendo spesso affidamento a riff esistenziali, i Terakaft sono l’esempio più importante del blues del deserto. Hanno un precedente di non poco conto con la musica rock ma non disdegnano episodi più vagamente popolari che fanno facile presa anche sui giovani tuareg. A colpire soprattutto di loro è l’efficacia del suono delle chitarre che si accompagnano in una melodia precisa e allo stesso tempo molto articolata
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