Milano
Un anno di Brigate volontarie per l’emergenza: “Non possiamo restare a casa”
Brigate volontarie per l’emergenza: inclusività, comunità, capillarità e organizzazione dal basso
Qualche mese fa ha circolato sui social e le pagine online dei quotidiani uno spot che veniva definito da Repubblica una “geniale campagna del governo tedesco contro il Covid 19”: un finto documentario in cui un anziano reduce (il primo pensiero va all’Olocausto o a una guerra) racconta di come da giovane sia diventato un eroe. Il suo coraggio, narra col tono di un sopravvissuto, consisteva nel “non fare nulla”: restare a casa, stravaccato sul divano, a mangiare junk food e guardare la televisione. Il messaggio sembrava essere: oggi basta poco, basta accettare la pigrizia e restare a casa, per fare la “scelta giusta” e sconfiggere la nostra “guerra”.
A molti si è quantomeno accapponata la pelle.
In quest’ultimo anno, fratture della società già profonde da tempo sono state messe in evidenza dalla pandemia. Enormi squilibri sociali si sono resi visibili fin dal primo mento in cui, a marzo, sono state fatte alla popolazione richieste che davano per scontato un tenore di vita standard: case abbastanza grandi in cui chiudersi comodamente – magari senza contagiarsi a vicenda, o senza un marito o un padre violento – (e comunque, una casa); un lavoro che non fosse in nero per poter ricevere dei ristori; device che garantissero a tutti i figli un’agile didattica a distanza e a tutti i lavoratori un agile smart-working; qualcuno (le donne, certamente) che si occupasse di eventuali bambini piccoli; qualcuno che potesse procurare la spesa a chi era in quarantena. E ora tamponi settimanali o bi-settimanali a proprie spese ai lavoratori, richiesti obbligatoriamente per poter andare al lavoro o addirittura per partecipare a un colloquio, o abbastanza risparmi sul conto per potersi permettere di non lavorare ogni volta che, per qualche contatto avuto con un malato, si finisce in quarantena.
Senza entrare nella spaventosa retorica dell’eroismo né tanto meno in una semantica di guerra, “non fare nulla” non è mai la “scelta giusta”.
Per fortuna di gente – fra quella che, come il protagonista dello spot tedesco, aveva l’energia, la possibilità e il tempo – che non si è spalmata su un divano a guardare la tv ce n’è stata, c’è stato chi si è chiesto come potesse restare a casa quando altri una casa non l’avevano o erano isolati o in difficoltà, prendendo così in mano le responsabilità civili e sociali che la situazione disperata di molte famiglie e di molte persone sole richiedevano.
Un esperimento particolarmente interessante e virtuoso è certamente quello delle Brigate volontarie per l’emergenza, nate a Milano con l’obiettivo di portare aiuto alle categorie che il disagio economico rende “invisibili” a gran parte dei piani statali di assistenza: over 65enni senza aiuti familiari, immunodepressi, lavoratori del mondo dello spettacolo, in nero, colf, badanti – chiunque insomma fosse invisibile all’INPS.
Con l’aiuto di Emergency, che ha fornito uno spazio all’interno dei propri uffici come “quartier generale” e una formazione sanitaria di base, e del Comune di Milano che ha invece istituito un numero telefonico attraverso cui potevano essere contattate e da cui potevano essere smistate le richieste di aiuto, le Brigate hanno cominciato con la distribuzione di pacchi alimentari attraverso il sistema della spesa sospesa, raccogliendo e distribuendo ad oggi 600 tonnellate di alimenti.
Il nome, Brigate, vuole ricordare il sistema organizzativo dei partigiani e si rifà all’idea di mutuo appoggio delle società operaie e fine Ottocento.
Sono nate, racconta Clara Sistili durante un’intervista con Andrea Staid realizzata per la Giornata dell’Antropologia, lo stesso 8 marzo quando le istituzioni chiedevano di stare a casa e loro si sono resi conto che invece quello di cui c’era bisogno era invece “organizzarsi, stare vicino alle persone, andare nelle strade e aiutare chi si ritrovava senza lavoro o isolato”. Il primo nucleo era formato da persone che facevano già parte di movimenti dal basso e si occupavano di lotte come per esempio quella per la casa. Avevano dunque già una rete di contatti capillare. Hanno bussato alle porte di Emergency che ha creduto nel progetto e fornito una sponda sanitaria, formando in poche settimane più di 400 volontari.
Inizialmente le brigate erano 9, divise per zone che facevano capo ai vari municipi. Il progetto si è poi modificato e ampliato. Dal portare la spesa e i medicinali agli anziani e persone in quarantena, si è passati alla distribuzione di pacchi alimentari gratuiti (ad ora, circa 1500 alla settimana). Molte realtà territoriali man mano hanno deciso di aderire e le brigate sono adesso 20 e si rifanno a un gruppo di coordinamento. Alcune comunità esistevano già, altre si sono formate in questi mesi e hanno cercato un contatto con spazi che potessero ospitarle. Ognuna infatti si appoggia a un centro sociale o un’associazione (per esempio Cascina Torchiera, Macao, Lambretta, Rob de Matt, Campo teatrale…) e organizza indipendentemente anche altre attività, come raccolta e distribuzione di vestiti usati o laboratori sulle violenze psicologiche e di genere. Si aggiungono a queste una brigata non territoriale, la Luigi Longo, che si occupa di operazioni speciali (come la distribuzione di pacchi regalo sotto Natale alle famiglie che ne hanno bisogno), di consegnare pacchi alimentari straordinari o della raccolta del fresco all’ortomercato; la Brigata Brighella, brigata teatrale che porta favole ai bambini nei cortili delle case; la Brigata Basaglia, di supporto psicologico; e infine un gruppo di ricerca che dall’interno intervista volontari e beneficiari per studiare il fenomeno senza però creare una divisione fra osservatori e osservati.
Con il supporto del covid-team di Emergency, una brigata di medici e infermieri volontari, il Comitato Inquilini, l’associazione Solari Insieme e l’Arci L’Umanitaria di via Solari 40, il 20 febbraio è partito anche il Tampone sospeso: un servizio a cadenza settimanale che offre tamponi gratuiti. L’iniziativa si rivolge in particolare (ma non esclusivamente) agli abitanti delle case popolari e ai “lavoratori in lotta”, fasce di popolazione che spesso coincidono. Come si accennava, infatti, molte agenzie e aziende tendono a chiedere ai propri lavoratori di sottoporsi a proprie spese a uno o più tamponi ogni settimana – spesa che spesso coincide con lo stipendio di una giornata intera di lavoro. Valerio Ferrandi racconta che le Brigate si sono quindi rivolte a S.I. Cobas per offrire tamponi ai lavoratori, in particolare addetti alla sicurezza dei negozi e imprese di pulizia.
Si tratta insomma di un’attività capillare, che va a toccare molti nervi scoperti, a dimostrazione di come gran parte dei problemi e delle falle della società siano collegati. Dalla sanità al bisogno di supporto psicologico, dai pacchi alimentari gratuiti al bisogno di nutrimento mentale, dalla lotta allo spreco alla necessità di salute alimentare ed educazione nutrizionale.
Se dalla pandemia è sorto qualcosa di buono, certamente è questa consapevolezza e insieme un nuovo desiderio, di fronte alla mancanza di risposte delle Istituzioni, di mutualismo e aiuto reciproco. C’è stato uno slancio verso la partecipazione, racconta Ivan del gruppo di ricerca, una voglia condivisa di agire invece che di abbandonarsi all’inoperosità, di condividere le proprie energie anziché restare a casa come il protagonista della suddetta pubblicità e farsi vincere dal sentimento di impotenza che ha colto molti in quest’ultimo anno di solitudine, serie tv e aperitivi su zoom.
In questo stesso ultimo anno, si sono anche create nuove comunità e a partire dai bisogni materiali si sono tessuti legami, relazioni che per la loro stessa natura sono una cura – all’isolamento, all’impotenza, all’alienazione. È cambiato anche il modo di fare attivismo: si è sospeso (non cancellato) il conflitto e ci si è dati da fare per trovare soluzioni; chi già era impegnato si è aperto a chi di attivismo non ne aveva mai fatto; si sono mescolati volontari con background e motivazioni fra le più diverse che qui hanno trovato un territorio comune. E tutto ciò non si è trasformato in assistenzialismo perché il mutuo appoggio è stato fra tutti, volontari e beneficiari, e spesso è accaduto che i beneficiari si siano fatti coinvolgere e siano diventati al tempo stesso volontari.
Le parole d’ordine di questi mesi, individuate da Clara Sistili nel corso della chiacchierata con Andrea Staid, sono quattro: inclusività, perché le brigate sono arrivate a chiunque; comunità, perché in un momento di isolamento chi le ha messe in piedi ha sentito di riconnettersi alla società, di riavvicinarsi e al tempo stesso di essere investito dalle contraddizioni che attraversano i quartieri popolari, con tutte le difficoltà e la necessità di crescere insieme che questi contraddizioni provocano; capillarità, perché sono su tutto il territorio e anche nell’hinterland, così così da mettere le persone in rete e rispondere a molti più bisogni (a partire da quello del cibo arrivano anche a bisogni abitativi, sanitari, psicologici) e infine organizzazione dal basso, perché si dà per scontato che il sistema vigente produce povertà e disuguaglianza e non ha senso quindi chiedere loro risposte che non possono dare. Eppure forse proprio ora le istituzioni si sono accorte di dover cambiare e cominciano quanto meno ad appoggiarsi a organizzazioni come questa (avranno veramente il coraggio di sgomberare quei tanti centri sociali che sono sotto continua minaccia e che hanno un impatto sul territorio, ora se ne saranno accorti, fondamentale e che non ha nessun altro?).
Come sappiamo, l’emergenza diventerà (è già diventata) da sanitaria a socio-economica. Per questo, e per il fatto che i problemi a cui va incontro (compreso, in sé, lo sfaldarsi del tessuto sociale) esistevano già e sono solo stati messi in luce dalla crisi, l’esperienza delle Brigate ha una prospettiva di lungo periodo.
A questo si aggiunge che operare in questo senso è bello. La relazione cura, ricollega l’individuo al proprio territorio. E soprattutto, partecipare è certamente più divertente che consumarsi gli occhi davanti a Netflix o Zoom, il fegato mangiando junk food e la Terra col packaging di Amazon. Per chi già non lo sapeva e per chi si è dato la possibilità di viverlo in quest’ultimo anno, è una bella scoperta, e varrà anche fuori dall’era del Covid.
Per questo la pubblicità tedesca tanto apprezzata sui social e i quotidiani italiani, con tutta la retorica che si porta dietro, è triste e dannosa. La buona notizia è che non bisogna crederle.
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