Milano
Milano, Italia. La politica dei divari è nel nostro futuro
In tutte le società a capitalismo avanzato si discute dei nuovi divari territoriali determinati dalla più accentuata dinamica di agglomerazione metropolitana dell’economia osservabile negli ultimi decenni. Questi squilibri rappresentano la dimensione “spaziale” di processi di polarizzazione della ricchezza che, come noto, sono oggetto dell’attenzione scientifica e più ampiamente di quella pubblica da diversi anni.
Quindi le parole del Ministro Provenzano certo non possono stupire e anzi indicano la necessità che anche in Italia, come peraltro accade per l’appunto altrove, si discuta di questi nuovi divari. Che qui, oltre a prodursi nel contesto di un dualismo territoriale mai colmato, riguardano un’economia ed una società stagnanti dove la forte attrattività di pochissimi poli metropolitani (Milano, Bologna) è sicuramente funzione sia della loro effettiva attrattività (il fattore pull:”a Milano si trova lavoro”) sia, più che in altri paesi, della situazione di crisi profonda di molti territori e di molte città medie e piccole da cui i nuovi flussi migratori provengono (il fattore push: “vado a Milano che qui è comunque impossibile trovare lavoro”).
Tutti concordano – si vedano, ad esempio, Richard Florida ed Enrico Moretti – sul fatto che i grandi poli metropolitani attraggano come mai prima un fattore produttivo decisivo come mai prima, il capitale umano. Un capitale che è formato attraverso politiche nazionali – si pensi al ruolo del sistema di istruzione – e anche attraverso gli investimenti delle famiglie. Da questo punto di vista, non si può non sottolineare come se Milano rappresenta certo il nodo più internazionalizzato del capitalismo italiano in questa condizione di ritrovata attrattività Milano sia anche diventata “italiana” come mai prima.
Italiana perché per l’appunto attrae, a condizioni vantaggiose, un capitale umano prodotto nell’insieme del paese e in virtù degli investimenti citati. Ma anche perché se ad esempio crescono gli investimenti immobiliari internazionali – è questo uno degli indicatori del suo successo più di frequente citati – crescono anche quelli interni segno di un forte orientamento del risparmio nazionale verso la città. Un risparmio che è fatto di famiglie del resto del paese che, magari per sostenere il progetto migratorio dei figli già avviato con l’università (si vedano su questo tema i lavori di Granfranco Viesti), investono nell’immobiliare a Milano, portandovi capitali che fino a dieci anni fa si sarebbero orientati altrove, sebbene non necessariamente nella località d’origine. In questo senso non é appare quindi scorretto dire che Milano – come capita per altre grandi aree metropolitane in molti paesi – “assorba” molto capitale, umano e non solo umano, che un tempo si allocava altrove. Un capitale che oggi permette alla città di concentrare una quota crescente della limitatissima crescita nazionale.
Sarebbe ovviamente ingenuo pensare che in questo processo di divaricazione a pesare siano solo la maggiore efficacia e continuità amministrativa delle istituzioni locali (citato spesso come fattore decisivo a Milano, dove ad esempio le grandi scelte di valorizzazione immobiliare sono state confermate al cambiare delle amministrazioni) e non anche alcuni caratteri propri all’attuale modello di sviluppo globale, alla lunghissima crisi italiana ed a scelte di politiche nazionali, sia settoriali sia non settoriali. Si pensi a città come Torino, che di efficacia e continuità amministrativa ne ha avuta molta, eppure, scommesse simili sull’economia della cultura, sui grandi eventi e sull’immobiliare non hanno avuto esiti paragonabili, tutt’altro (anzi, uno dei sintomi più macroscopici della politicizzazione del nuovo divario é proprio il conflitto strisciante fra Milano e la vicina Torino).
Da questo punto di vista, il principale problema di Milano si chiama oggi Roma. Milano non sarebbe così “esposta” all’attenzione pubblica se Roma non fosse coinvolta in una crisi durevole e severa che la vede non più in grado di rappresentare l’altro robusto polo metropolitano capace, in particolare, di esercitare una forte attrattività nei confronti del Mezzogiorno. Oggi si parla di “modello Milano”, ma anche Roma – quando Milano sembrava incapace di riprendersi da Tangentopoli (ma era un sonno apparente) – aveva il suo “modello” fatto di crescita immobiliare, turismo, grandi eventi, economia della cultura e un certo dinamismo nell’ambito dei servizi alle imprese. Eppure quel modello che vedeva Roma crescere sia demograficamente sia economicamente più di Milano si è rapidamente convertito in un incubo che dura ormai da almeno un decennio (si veda qui un’analisi della crisi del cosiddetto “modello Roma” in tante delle sue dimensioni: http://www.planum.net/planum-magazine/planum-publisher-publication/roma-in-transizione_coppola_punziano). Se e fino a quando Roma non ritroverà una condizione di “normalità” forte sarà la percezione nel resto del paese di un eccessivo sbilanciamento, sbilanciamento che si rivelerà politicamente sempre più problematico. E da questo punto di vista Roma è certo un problema “nazionale”, cosa che si è ben lontani dal riconoscere, ma è anche un problema di Milano: il suo declino porta con se costi politici non solo per Roma, ma anche per Milano.
Più complessivamente, in un’Italia divaricata da tanti e contestuali divari, il discorso sul “chi resta” non potrà che rivelarsi centrale nella politica e nella società. Un discorso che non riguarderà solo territori periferici o città medie e piccole ma anche altre aree metropolitane se è vero, ad esempio, che sono i comuni di Roma e Napoli i principali contributori netti dei nuovi residenti. Il chi resta è fatto di generazioni di ceto medio che vedono i propri figli riprodurre un destino migratorio che loro erano riusciti ad interrompere, e che lo rinnovano proprio in virtù dell’investimento operato consapevolmente su di loro. Oppure, nel caso delle città medie e metropolitane , di famiglie che non immaginavano che l’investimento sui loro figli si sarebbe risolto non in una traiettoria ascendente a livello locale – i bei tempi dell’inserimento nelle borghesie locali sembrano passati per sempre – ma in un progetto migratorio, nel paese se non fuori dal paese. Da questo punto di vista, a proposito di “caduta delle aspettative”, sarebbe interessante indagare quanto alcuni sommovimenti politici ed elettorali dipendano più che dall’immigrazione internazionale dalla percezione dell’emigrazione nazionale e internazionale da parte di chi “è restato”.
Ed in effetti, sebbene in modo ancora immaturo, i nuovi divari sono un nuovo oggetto politico e come tale producono anche un nuovo discorso politico (come reso evidente dalla polemica nata attorno alle parole del Ministro). Nota è la componente territoriale del discorso “populista”, che al di là delle rappresentazioni giornalistiche è essenzialmente un discorso di estrema destra, che vede nelle città un bersaglio usuale delle polemiche contro il “cosmopolitismo” dei radical-chic o dei bobos (si veda qui per un ragionamento su Francia, Italia e Usa: https://aspeniaonline.it/41443-2/). Lo stesso Matteo Salvini ha sempre usato il discorso sulla “sinistra delle ztl” – dove risiederebbe gran parte dell’elettorato del Pd (e dove in effetti il Pd ha successo) – come dispositivo centrale del proprio discorso (e a un certo punto era diventato così preciso da parlare dei “salotti” all’interno delle “ztl”, passando dalla scala urbana a quella domestica). Contestualmente, non mancano discorsi che alludono a un nuovo autonomismo “metropolitano” che si nutre di moventi non solo economici ma anche sociali, di classe ed identitari (sebbene di un identitarismo “cosmopolita”) e che si fanno largo fra i ceti medi e superiori, anche al di là delle tradizionali appartenenze politiche. Da questo punto di vista è interessante osservare come questo neo-autonomismo – per ora un discorso molto poco strutturato – abbia più di una difficoltà a convivere con il tradizionale “nordismo” leghista che per la verità promette un universo di valori ed un centralismo regionalista poco in linea con le preferenze di componenti importanti delle classi dirigenti urbane. Egualmente, il movimento “si resti arrinesci” – che rivendica “il diritto a restare” per i giovani siciliani – segnala il fatto che da inevitabile destino individuale il tema migratorio sia diventato un oggetto politico dalle implicazioni potenzialmente rilevanti anche in alcune aree del Mezzogiorno.
Come si vede, il terreno della “politicizzazione” dei nuovi divari territoriali è quindi in pieno movimento. Egualmente, si tratta di un terreno che alle condizioni date ad oggi dissimula un aspetto decisivo che in altri contesti è invece ben evidente nel discorso pubblico: ovvero che non basta risiedere nei gran poli metropolitani per essere dei “vincitori”. E che la crescita in questi poli si manifesta ovviamente attraverso forti squilibri: Londra, Parigi, Milano, Barcellona, Madrid sono anche città con diseguaglianze non solo elevate ma anche crescenti e nelle quali i “costi di arrivo” di chi vi è attratto sono molto significativi.
L’espansione immobiliare, che è comunemente considerata un indicatore del successo metropolitana in un’economia fortemente finanziarizzata, erige imponenti barriere d’accesso mentre contribuisce alla concentrazione di vaste ricchezze in chi la controlla. Il mondo delle “città globali” descritto da Saskia Sassen prima della grande crisi esiste tutt’ora ed il fatto che si discuta di divari territoriali ad una scala più elevata di quella urbana non può farci dimenticare che nelle grandi aree metropolitane continua ad esistere una grande questione sociale che sta creando una lunga serie di cleavage e conflitti (espressi o potenziale) che riguardano soprattutto l’abitare, ma anche e sempre di più il lavoro. Peraltro, questi cleavage possono riguardano la stessa proprietà immobiliare diffusa, se è vero che nelle grandi aree metropolitane i processi di valorizzazione immobiliare seguono essi stessi geografie molto divaricate – si vedano ad esempio gli stessi andamenti dei valori nella periferia non solo metropolitana di Milano – che disegnano nuove fratture sociali che possono esprimersi in forma spaziale.
Per tutte queste ragioni è quindi del tutto evidente che il registro morale che tanto condiziona il discorso pubblico anche sui divari territoriali non sia né accettabile né tantomeno utile, se non a consolidare rappresentazioni identitarie che non faranno altro che ulteriormente rafforzare il discorso della destra. Non ci sono squilibri morali fra città e territori che meritano e città e territori che demeritano, ma ci sono squilibri strutturali determinati da un modello di sviluppo che intervengono su divari multi-dimensionali ereditati – e che riguardano l’economia, la società, la qualità delle istituzioni – acutizzandoli.
Inoltre questi divari territoriali hanno costi sociali, ma hanno anche costi politici che in Europa si sono fatti nel tempo sempre più visibili. E solo una piena consapevolezza dei fattori che producono tali divari e della loro necessità nell’ambito del presente modello di sviluppo può rappresentare la precondizione di un discorso politico progressivo su di essi. Un discorso che parta dal riconoscimento dell’interdipendenza fra territori e popolazioni – i fattori impiegati hanno origine sempre ad una scala più ampia di quella dove si impiegano e la debolezza di qualcuno è sempre funzionale alla forza di un altro – senza il quale lo stesso processo di globalizzazione (e le relative, nuove e vecchie, gerarchie) non è pensabile.
Viceversa, la risposta più facile sarà l’arroccamento identitario – che sia aperto e cosmopolita, o chiuso o localista – nell’idea che si possa fare a meno degli altri oppure che altrove vi siano soltanto vincenti, in una pervasiva semplificazione ed essenzializzazione di interi territori e popolazioni. Che non farà altro che giustificare e cristallizzare i divari per come essi si presentano.
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