Milano città della conoscenza?
:Se è vero, come si dice, che Milano è una città che tiene nascosti i propri tesori, allora tra questi tesori dovremmo includere anche le sue istituzioni della conoscenza, cioè i luoghi dedicati alla ricerca e all’alta formazione scientifica e artistica. Milano infatti, con le sue nove università, i suoi quattro centri di alta formazione musicale e artistica e i suoi tredici centri di ricerca di eccellenza, è una delle città europee con la maggior concentrazione di istituzioni che producono conoscenza. Si tratta di un patrimonio straordinario per dimensioni, per eterogeneità dei campi che ricopre, ma anche per pluralismo dei suoi promotori: statali e comunali, privati e della società civile.
Eppure, questo patrimonio è spesso poco riconosciuto e valorizzato pubblicamente dalla città. Lo si vede dai quasi duecentomila studenti universitari che ancora faticano a trovare condizioni ospitali, per gli alti costi degli affitti o la carenza di spazi di aggregazione. Lo si vede dalla diffusa diffidenza di molti milanesi verso questa popolazione. Si è ancora lontani, cioè, dall’avere un rapporto virtuoso di scambio tra città e istituzioni della conoscenza, quando Milano invece avrebbe tutte le potenzialità per essere una vera città della conoscenza.
E’ una sfida che la Milano dei prossimi anni può provare a giocare ed essa parte dal rendere visibile e riconosciuto da tutti questo patrimonio cittadino. Una strategia che molte città hanno adottato per dare valore pubblico ai propri tesori è quella di organizzare grandi eventi che potessero catalizzare risorse attorno ad essi. In parte Milano sta provando a farlo con l’Expo, per esempio con il lavoro dei Laboratori Expo promossi da Fondazione Feltrinelli insieme alle università milanesi. I grandi eventi però servono solo se sono in grado di costruire un terreno fecondo che poi diventi eredità di lungo periodo per la città e quindi se sono accompagnati da tante iniziative, anche piccole ma capillari, che costruiscano un ecosistema della conoscenza.
Negli ultimi dieci anni diversi soggetti si stanno interrogando su questo tema, sia sul lato delle università che degli enti pubblici. Alcuni ricercatori accademici hanno iniziato per esempio a interrogarsi sulla loro “terza missione”, cioè l’impiego della conoscenza per contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società, e in particolare dell’area metropolitana milanese (per esempio in questo contributo). Anche il Comune ha messo in campo alcune iniziative concrete in questo senso. Per esempio istituendo, insieme a Camera di Commercio e alle Università, l’Agenzia Uni, che mira a facilitare la ricerca di alloggi per studenti e ricercatori che vengono a vivere a Milano. Le stesse università, da parte loro, hanno accettato di rendere un po’ più pubblicamente fruibile il loro sapere, per esempio con le Notti dei Ricercatori, un appuntamento che ha avvicinato migliaia di cittadini, soprattutto giovani, al lavoro di ricerca che si compie negli atenei milanesi.
Vi è però un obiettivo ancora più ambizioso in questa sfida: quello di far lavorare insieme chi sviluppa conoscenza e chi governa la città per costruire politiche intelligenti, cioè capaci di capire e interpretare i fenomeni sociali ed economici emergenti per imparare a governarli in modo responsabile ed efficace. In altre parole, è la sfida di rendere il rapporto tra ricercatori e amministratori un grande motore di intelligenza istituzionale. Non si tratta certo di chiedere ai ricercatori di produrre ricette pronte di politiche pubbliche, in uno scenario di tipo tecnocratico, né di usare i ricercatori come meri consulenti tecnici, con un uso solo strumentale del loro sapere. Si tratta piuttosto di creare un’arena pubblica di confronto sulle sfide che la città e il suo dibattito politico solleva, nella quale ricercatori, soggetti dell’innovazione e amministratori portino ciascuno istanze, saperi, punti di vista, che si possono coniugare in un mutuo apprendimento, nel quale possano essere incrociate e fatte circolare pubblicamente analisi e contributi differenti per disciplina accademica, per comunità di pratiche di riferimento e per ruoli politico-amministrativi.
Certamente una tale sfida non può essere giocata solo a livello locale. Essa si scontra infatti con una doppia sindrome molto radicata nel contesto italiano: quella di un sapere accademico spesso autoreferenziale e disciplinarmente molto frammentato e quella di una classe dirigente troppo abituata a usare la conoscenza scientifica come mera giustificazione delle proprie scelte o altrimenti a guardarla con diffidenza. Affrontare queste sindromi richiede perciò un lavoro culturale di lungo periodo. Ma è un lavoro che può essere iniziato anche in un contesto locale come quello di una città metropolitana. E’ proprio sulla scala locale, infatti, che è possibile creare un ecosistema favorevole per lo sviluppo della conoscenza diffusa. Lo dimostrano casi virtuosi anche molto differenti per contesto storico e geografico, come S.Francisco, Berlino o Seul, tutti caratterizzati da uno stretto rapporto di scambio tra città, università e imprese nella sfida dell’innovazione.
Il nascente Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica su Innovazione e Inclusione, da poco presentato dal Comune di Milano, è un tentativo di gettare un primo passo in questa direzione. Esso mira a costruire delle arene di ingaggio pubbliche che permettano a ricercatori, soggetti dell’innovazione e Amministrazione di ragionare insieme sui fenomeni emergenti in città, per arrivare a costruire politiche pubbliche migliori.
La speranza è che questa attitudine al coinvolgimento di tutte le risorse della conoscenza presenti in città possa diventare più in generale un metodo per costruire il progetto della Milano dei prossimi anni: non un’opera di tecnocrati o di uomini soli al comando ma il frutto di un grande lavoro cooperativo.
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