[*] La “Milano da bere” non esiste più da decenni. Al suo posto sta prendendo il largo la “Milano di corsa”. A correre sono migliaia di ciclofattorini, più noti come “rider”, che sfrecciano ogni giorno per le strade della città a consegnare pasti a domicilio. «Fare il rider mi permette di stare all’aria aperta. Quando pedalo i problemi della mia vita spariscono, è una delle poche attività che mi permette di staccare completamente e non pensare ad altro». È quanto riporta nella sua pagina dedicata alla raccolta delle candidature per diventare ciclofattorini, Deliveroo, colosso della gig economy da 150 milioni di euro di fatturato annuo. Un quadro, quello descritto, ribadito da Matteo Sarzana, general manager di Deliveroo Italy, che diversamente da Just Eat, ha voluto rispondere alle nostre domande: «I rider che collaborano con Deliveroo hanno un contratto, guadagnano in media oltre 12 euro all’ora, oltre il 90% dei rider si dichiara soddisfatto e la flessibilità del lavoro è apprezzata poiché permette di integrare questa attività con lo studio e con altri lavori… chi parla di sfruttamento evidentemente non ci conosce».
«Anche se per diventare ciclofattorini – ribatte invece Angelo Avelli di Deliverance Milano (organizzazione sindacale di base che nei giorni scorsi ha presentato una proposta di legge) – basta avere una bicicletta, uno smartphone e mandare via app il proprio curriculum, la realtà è un po’ diversa da quella che Deliveroo vorrebbe far intendere».
Perché a Milano, che ha fatto da apripista all”esplosione del mercato dei rider, così come in ogni altra città dove le consegne a domicilio hanno preso piede e vanno di moda in alcune fasce sociali medio-alte, i ciclofattorini non sono persone propriamente spensierate o alla ricerca di aria fresca e pulita: nella zona di Piazza 24 Maggio di ci imbattiamo in pakistani, nordafricani, indiani, sudamericani, ma anche universitari e persone che evidentemente sono in età troppo avanzata per ritrovare lavoro. Categorie che con Deliveroo o altre piattaforme simili provano a sbarcare quotidianamente il lunario. C’è anche chi, come Samir, è scappato dalla guerra e sognava un mondo diverso: «Sono arrivato qui quattro anni fa, ho fatto di tutto e da alcuni mesi, con mio fratello Naasih, facciamo le consegne dividendoci la zona assegnata: lavoriamo sette giorni su sette, il guadagno ci serve appena per la stanza e le spese per vivere, ma almeno veniamo pagati e a volte ci sono pure le mance dei clienti».
Quanti siano i clienti delle consegne a domicilio non è noto. Si stima che in Italia, solo il 5 per cento della popolazione ordina online i pasti a domicilio, ma il mercato è in rapida espansione, soprattutto nelle grandi città. Non esistono dati esatti neppure sulla consistenza e sulle caratteristiche del mondo dei rider. «I ciclofattorini dell’intera area metropolitana milanese – racconta Avelli – sarebbero circa 4 mila e le più grandi società che controllano il 90 per cento delle consegne di cibo a domicilio – Deliveroo, Just Eat, UberEats e Foodora, la cui filiale italiana è stata appena acquisita da Glovo – disporrebbero di flotte di 5-600 fattorini. Fare l’identikit è poi difficile, perché la composizione sociale è variegata: c’è il precario che deve fare due o tre lavori per cercare di mantenersi in una città dove i costi di affitto sono ai massimi storici e per una stanza si arriva a pagare 5-600 euro al mese; ci sono studenti che vogliono essere più autonomi; sono sempre più i migranti, provenienti da Paesi africani come Costa d’Avorio, Gambia; poi ci sono i professionisti espulsi dal mondo del lavoro e impossibilitati di rientrarvi per età o perché eccessivamente specializzati».
Una ricognizione sul mondo della gig economy ha tentato di farla negli scorsi mesi la Fondazione Rodolfo Debenedetti, che ha presentato alcuni risultati all’ultimo Festival dell’Economia di Trento. L’economia digitale occupa in Italia tra 700mila e 1 milione di persone: 10-13.000 di queste sarebbero rider. Un’altra ricerca condotta in aprile da Foodora, una delle maggiori piattaforme on demand, ha tentato di profilare i propri rider: svolgono questo lavoro soprattutto giovani e lo farebbero per scelta, oltre che per un periodo che non va oltre qualche mese. Solo il 10% di loro supera i 35 anni e il 4% va oltre i 45 anni d’età. Dai dati emerge, inoltre, che il 25% dei ciclofattorini lavora anche per altre piattaforme con lo scopo di accumulare un numero maggiore di consegne e massimizzare i guadagni».
Come per i lavoratori addetti al volantinaggio, anche nel caso dei rider c’è un algoritmo a determinare le consegne. Ma che valuta pure l’affidabilità di ogni singolo lavoratore attraverso un sistema di rating (giudizio) e ranking (classifica). L’obiettivo è rendere i lavoratori competitivi fra loro. Ma anche ridurre le occasioni di socializzazione. Perché non ci siano tempi morti? «Non solo per questo – ci informa Marco, universitario di origini abruzzesi che arrotonda la paghetta dei propri genitori – : l’impressione è che la strategia sia stata adottata per evitare che tra di noi potessero esserci occasioni di confronto sindacale, proprio nel momento in cui era alta la tensione con la dirigenza ed avevamo minacciato di scioperare». Questo scenario, precisa lo stesso Marco, «getta ombre preoccupanti su quello che potrebbe diventare il mondo del lavoro».
Generalmente, poi, le piattaforme «assoldano» almeno il 20% di lavoratori più del necessario per tutelarsi rispetto alle defezioni dell’ultimo minuto. Con inquadramenti contrattuali flessibili – lavoro occasionale o co.co.co – i guadagni medi sono noti e sono quelli che ha fatto emergere alcune settimane fa la “Data Room” di Milena Gabanelli per il Corriere della Sera: da 2 a 4 euro lordi a consegna, voci addizionali (fino a 0,60 euro) sui chilometri percorsi. Ma è l’agoritmo ad avere l’ultima parola, perché i compensi variano continuamente e sono comunque diversi da città a città.
«È sfruttamento digitale – puntualizza Avelli – visto che siamo scambiati per imprenditori di noi stessi, ma qui non c’è nessuna partecipazione agli utili e subordinazione a tutti gli effetti. Però non abbiamo ferie, né malattia, né assicurazioni capaci di coprire tutti i casi di infortuni sul lavoro ed i danni che ne derivano, né maggiorazioni per lavoro festivo, notturno o domenicale». Le condizioni climatiche avverse non devono poi rappresentare un ostacolo al regolare svolgimento delle consegne. Naturalmente, non esistono premi o altri benefit. Di tutele nemmeno a parlarne. Ad aprile Glovo aveva annunciato di aver introdotto una copertura assicurativa, ma poi è risultato che la stessa riguarda solo danni a terzi.
«Ci sono stati anche casi recenti di gravi infortuni – incalza Avelli – , come il lavoratore di Milano che ha perso una gamba, o Francesco, a cui è stato amputato un arto dopo essere stato travolto da un tram o il caso del ragazzo originario di Pisa, morto durante un ciclo di consegna, al secondo giorno di lavoro». C’è chi ha tentato la strada giudiziaria per vedersi riconosciuti diritti. Come i sei rider di Foodora, che avevano promosso una causa civile contro la multinazionale tedesca e, contestando l’interruzione del rapporto di lavoro per aver partecipato, nel 2016, a delle mobilitazioni sindacali, chiedevano di essere reintegrati e di ricevere l’indennizzo previsto per il licenziamento nei rapporti di lavoro subordinato. Ciò, sulla base della tesi secondo cui il rapporto di lavoro, prevedendo di fatto l’obbligo di essere sempre reperibili, dovesse essere equiparato ad un rapporto di lavoro di natura subordinata. Il Tribunale di Torino è stato però di avviso contrario e ha respinto il ricorso, affermando che i rider di Foodora «non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa» e non erano quindi «sottoposti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro». In linea con le conclusioni del Tribunale di Torino lo stesso general manager di Deliveroo Itay: «I rider che collaborano con Deliveroo sono lavoratori autonomi, decidono loro quando, quanto, dove, come lavorare, accettando o rifiutando le proposte che ricevono; e questo spiega perché il CCNL della Logistica non possa trovare applicazione».
Qualcosa però si muove sulla strada della conquista di maggiori diritti. A luglio, a Milano, capitale italiana indiscussa della food delivery, si è svolta una grande biciclettata Deliverance Strike Mass, per chiedere il miglioramento delle condizioni di lavoro.
La piattaforma di rivendicazioni prevedeva l’introduzione di un contratto di categoria con l’applicazione del CCNL Trasporti e Logistica; l’abolizione delle false partite iva e la sostituzione con un contratto adeguato; il rinnovo di tutti i contratti in scadenza; il pagamento di 7,50 euro netti all’ora di salario garantito per tutti; un monte ore garantito di almeno 20 ore per tutti; un’indennità atmosferica in caso di pioggia o neve pari ad una maggiorazione del 30% sul pagamento orario; un indennizzo di lavoro straordinario nel caso in cui le consegne vengano effettuate oltre il turno di lavoro assegnato, con il riconoscimento di una maggiorazione pari al 50% del pagamento orario; il riconoscimento di un indennità chilometrica oltre i 3,5 km su strada, dal punto di partenza al punto di consegna; la copertura assicurativa totale a carico dell’azienda per ogni singolo lavoratore; un rimborso spese per oneri di mantenimento di bici o moto e per il cellulare; la fornitura di un’attrezzatura funzionante (tuta impermeabile, caschetto a norma). Tante richieste. Una delle quali ha trovato risposta. Deliveroo ha infatti provveduto all’attivazione di una copertura assicurativa su infortuni e danni verso terzi durante i turni lavorativi e l’ora successiva alla loro conclusione. Un primo passo, forse, sulla strada dell’uscita dei rider dalla terra di nessuno.
«La battaglia che portiamo avanti – conferma Avelli – non sono certo rivoluzionarie: vogliamo il puro riconoscimento del ciclofattorino come lavoratore e l’introduzione della figura all’interno del contratto nazionale della logistica, con la conseguente estensione di diritti, tutele e garanzie salariali». Ma il tavolo rider istituto dal vicepremier Luigi Di Maio e salutato con grande enfasi mediatica? «In un limbo da mesi», la laconica risposta di Angelo.
[*] di Marco Amendola (video), Fabrizio Annovi (infografiche) e Alberto Crepaldi (testi e interviste)
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