Max Ernst, l’universo cosmico di un artista visionario in mostra a Milano
La mostra milanese di Palazzo Reale presenta fino al 26 Febbraio le opere di Ernst, un pittore che è stato insieme espressionista, dadaista, surrealista, e sempre personalissimo nel catalizzare visione interiore e interpretazioni del mondo esterno con le tecniche sperimentali più varie e molteplici. Occorre concedersi del tempo per prendere confidenza e familiarità con un artista poliedrico non facile, provocatorio e dissacratore anche quando parla di sé, come ad esempio sul bordo a sinistra del suo Progetto per un manifesto, realizzato con collages di sovrapposizioni dove si legge: “Max Ernst è un bugiardo, cacciatore di eredità, calunniatore, imbroglione, diffamatore e pugile”.
Nasce nel 1891 a Brühl presso Colonia, apprende di pittura dal padre e ha la sua rivoluzione copernicana nel 1919, alimentato da suggestioni visionarie di alchimia, filosofia, patafisica, psicoanalisi e storia naturale. La natura compare dominante nei suoi quadri, in particolare a proposito del mondo animale rispecchiante gli elementi del cosmo, quali uccelli (cielo) e pesci (acqua), come pure del regno vegetale e minerale (terra) e dei suoi sommovimenti (fuoco).
Lui si presenta così: “I suoi occhi bevono tutto quello che si presenta nel suo cono visivo”. Tra i primissimi quadri esposti Oedipus Rex del 1922, in linea con l’Edipo della tragedia greca. Qui appare una noce schiacciata tra le dita, infilzata da una freccia e, a destra, due volti affiancati di animali – il secondo più giovane serrato in una struttura in legno – mentre un pallone aerostatico appeso nello spazio spazia libero nella immensità del cielo. Nella prosecuzione degli anni ’20 si fa avanti nei suoi quadri la presenza di Eros: Gli uomini non ne sapranno nulla (1923), Due giovani in belle pose (1924), Il ritratto di Gala (1926) e Il bacio (1927). Sono anni in cui si innamora della moglie russa del poeta Paul Eluard, Gala, e va a convivere con lei e suo marito nella casa di Eaubonne – inizia così un disinvolto ménage à trois – e questi quadri sono tutti importanti ma uno di essi, quello del 1923, è il più evocativo e spiazzante. Eros per lui porta ad una metamorfosi mettendo in connessione l’individuo con l’universo cosmico.
Di Gli uomini non ne sapranno nulla si possono dare letture multiple: c’è un allineamento verticale sole/luna/terra nel quale si intersecano le parti inferiori di due corpi – gambe spalancate e sesso con i piedi avvolti sulle punte della luna in un atto di copulazione – e dei fili collegano il sole alla terra, che appare come un essere organico sull’asse centrale della scena con una grande mano che si appoggia su di essa come per tacitarla. Già questa prima parte del percorso invita il visitatore ad un esercizio senza fine di libera interpretazione a partire dalla ricchezza dei dettagli ma senza la presunzione della acquisizione di un senso compiuto e irrevocabile. Siamo su un terreno visionario irriducibile a una decodificazione razionale, un evocativo in buona misura ‘indicibile’ e immaginifico, un sogno trasposto su tela.
Diciamo che un quadro di Ernst non si può deporlo sul lettino dello psicanalista, se ne perde il fascino. La donna è protagonista del suo primo romanzo-collage, pubblicato il 20 Dicembre del 1929. Il suo corpo è ricettacolo erotico nella nudità e su ciò scrive un saggio nel 1960 dal titolo “La nudité de la femme est plus sage que l’einsegnement du philosophe” con la prefazione di un filosofo che di eros se ne intendeva come Georges Bataille. Finirà da anziano a elaborare sulla tela in Codice d’amore (1966) una forma di scrittura segreta di segni arricciati come accesso alternativo al regno sul quale i linguaggi codificati comuni non sono ben attrezzati a muoversi come il tema amoroso.
Sugli altri quadri del periodo in rapida sintesi: misterioso è il volto oscurato su sfondo blu di Gala nel ritratto del 1926, affascinante l’armonico viluppo dei corpi de Il bacio del 1927, più realisticamente esibita la verticale disposizione in bella posa dei corpi – il maschile e il femminile – nel quadro di qualche anno prima, Due giovani in belle pose (1924).
L’invenzione pittorica d’altro canto si avvale della natura come sorgente di infinite possibilità di immagini costellate di creature biomorfe, come la ricca serie enciclopedica del portfolio pubblicato nel 1926, Histoire naturelle, con la tecnica del frottage. L’interesse per la scienza naturale è per lui combinato con l’alchimia e l’ermetismo per marcare l’unità perduta tra l’uomo e il cosmo. A controprova di ciò la mostra ha organizzato una sala con la formula dei 4 elementi primari: aria, terra, acqua e fuoco.
Nella parte dell’Aria ecco un capolavoro come Monumento agli uccelli (1927), due gruppi di figure volatili, l’una svettante che si libra nell’aria e l’altra accucciata a terra. L’uccello è animale-totem per lui, lo chiama con un suo pseudonimo francese Loplop e tedesco Horneborn, ed è richiamo alla libertà assoluta di frequentare il cielo con il supporto delle sue ali, cosa non possibile agli umani se non guidati dalla immaginazione. All’interno della testa di uno di due becchi di uccelli è inserito un pesce, l’altro animale preferito per la sua frequentazione con un elemento altrettanto affascinante come l’aria, ovvero l’acqua. All’Acqua appartengono tele come Due rondini attraversano l’oceano in una valigia (1925-26) e Corrente del golfo (1926), in cui si intrecciano elementi naturali e simbologie alchemiche.
Nella zona intitolata Terra si incontra La Foresta (1927-28), una sorta di muri a mo’ di tronchi da cui sullo sfondo si intravvede il cerchio di un pianeta nell’incertezza dell’imbrunire; infine all’incandescenza del Fuoco la trasformazione alchemica si evince dalle trasformazioni portate da questo elemento, come in Vulcano II e Arizona Red (1951).
Un ulteriore approccio si evince a partire dalla metà degli anni ’30: la accentuazione del carattere selvaggio della natura simile a una giungla primordiale, come appare in Agli antipodi del paesaggio (1936), dove regna un’atmosfera di mistero con un figura zoomorfa a fronte di quella di una donna nella parte in basso, immerse in una area di vegetazione sottostante un mare pietroso e il profilo costellato di picchi montagnosi avente un fondo di cielo indeterminato nei suoi passaggi cromatici tra un inizio della notte e primi albori del mattino.
Diversa la figurazione de La città intera (1936-37), dove il profilo allungato in senso orizzontale di una città presente in pochi e sintetici tratti architettonici sta sotto un cielo di un giallo acido e in via di oscuramento e poggia interamente sul folto di una vegetazione brunita e con qualche infiorescenza (mi sono tornate in mente alcune descrizioni urbane allucinate di Calvino ne “Le città invisibili”). O ancora La natura all’aurora (1936), dove dal groviglio di rami e foglie di un verdeggiante tendente allo scuro emerge un grosso uccello con una mano – che sembra umana – racchiudente una sorta di ciuffo vegetale (va notato che la mano ritorna con piena evidenza in tanti quadri, a indicare il tatto, stretto parente dell’occhio nel sorvolare il mondo esterno che si rifrange nella visione interiore!).
Colpisce molto il confronto tra due tele di atmosfera del tutto opposta, segnate dal momento storico in cui sono state create, l’una del 1943, l’altra del 1945-46. La prima, intitolata L’anno 1939 (1943) che va premesso ricorre alla tecnica della oscillazione, con il dripping (la sgocciolatura) di Pollock. In questo frangente, la associazione di idee è cupo, tragico nel suo essere orribile: Ernst predispone una figura in cui vi è una combinazione delle curve delle singole parti allucinanti di uno scheletro riorganizzate in modo che l’osso pelvico si trasforma nella testa, inchiostrato con il contorno delle macchie nere dappertutto, a dire dello stravolgimento della figura e della dignità del corpo umano nella tragedia della guerra.
Ma, a dirla tutta, questa tela del ’43 è anticipata da quel capolavoro assoluto del 1937, che gli ideatori di questa mostra hanno preso come il suo marchio, ovvero L’angelo del focolare, che rappresenta un orrendo trampoliere, la figura inglobata di una creatura demoniaca torva, dalle grinfie puntute e una spaventosa bocca aperta da una altrettanto puntuta dentatura, che predice una movenza allucinata, interpretabile come una simbologia della svastica nazista. Ora, dopo lo scheletro del ’43, passano solo due anni e al primo momento di pace nel 1945-46 Ernst dipinge Sogno e rivoluzione, in cui Ia creatura biomorfa vive di tonalità cromatiche vivaci con il cappuccio rosso dei sanculotti della rivoluzione francese del 1789 e tiene accanto un tavolozza attraversata da aste simulanti possibili pennelli.
L’allusione figurativa diretta è l’aprirsi propugnata nell’immediato dopoguerra di una nuova epoca rivoluzionaria. Di fatto, a partire dagli anni ’50 lo stile di Ernst cambia di segno, accompagna atmosfere leggere e allusive, venate di qualche ironia, e nell’insieme ariose e gratificanti. Faccio solo qualche esempio: 1) Trentatre bambine vanno a caccia della farfalla bianca, esplosione di un luminoso chiarore spiovente su un corpo di bimba di cui si vedono le gambe; 2) il giardino incantato di Un tessuto di menzogne (1959), con una figura centrale di color blu che sparge pallini gialli e arancioni a tutte le altre che la contornano, e sembra una allusione anticipatrice della denuncia di fake news che si disseminano ora nella comunicazione; 3) i festosi corpi addossati in movimento danzante di La festa a Seillans (1964), momento di gioia collettiva popolare; 4) Il Romanticismo (1964), con una natura della verzura dispiegata attorno alla sfera gialla del sole che ne schiarisce la colorazione, una tela richiamante a suo modo una venatura neo-romantica.
Procedendo oltre, ecco presenti due quadri del 1965 ai due lati della stessa parte della sala in modo da poterli vedere in contemporanea, Il mondo dei naïves e Il mondo della sfocatura. Rifiuto assoluto di vivere come un tachista, che sembrano apparire in sintonia anticipante la nascente generazione dei figli dei fiori l’avvio della Beat Generation. Ultimo in assoluto compare la vibrante schiusura di una fioritura cosmica nel quadro intitolato Nascita di una galassia (1969), a celebrazione dell’infinito espandersi dell’universo.
Con questo quadro di Ernst si chiude qui il percorso di questa ricca retrospettiva milanese. La sua morte data il primo Aprile 1976 a Parigi. Il giorno dopo avrebbe festeggiato il suo ottantacinquesimo compleanno.
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