Milano

Quella Milano non c’è più: la sfida più difficile per Sala che si ricandida

7 Dicembre 2020

Quel che doveva accadere infine è accaduto. Dopo mesi di tentennamenti il sindaco di Milano Sala ha annunciato la sua ricandidatura. Lo ha fatto sul suo social media preferito, Instagram, subito dopo aver consegnato le onoreficenze cittadini, gli Ambrogini che tradizionalmente si consegnano nel giorno del santo patrono, il 7 dicembre. In passato più volte da queste parti ho detto le mie perplessità su questa modalità di attesa e rinvio procrastinato nel tempo. Ora che la riserva è sciolta, invece, è bene concentrarsi sui nodi politici che attendono il sindaco pensando alla prossima campagna elettorale, e soprattutto pensando al futuro della città.

Sala, per biografia umana e professionale, è figlio del tempo della crescita che non conosce interruzioni sostanziali. È nato all’inizio del boom economico, era giovane nel cuore degli anni Ottanta, ha fatto un’ottima carriera da professionista nel privato negli anni della finanziarizzazione delle grandi aziende italiane. Quando è passato al pubblico, dopo un breve contatto con la macchina comunale come direttore generale del Comune retto da Letizia Moratti, si è confrontato con l’obiettivo arduo ma preciso di portare a casa un grande evento, come Expo 2015. Expo, cioè una grande fiera cosmopolita, se vogliamo l’apoteosi tardiva della globalizzazione come sognata nell’Ottocento e poi messa in atto nel Novecento. Da quel grande evento riuscito è nata la sua popolarità pubblica, la sua candidatura, e la sua guida di una città compiutamente trasformata in meglio, anzitutto nella percezione e poi nella realtà.

Così, i primi anni del suo governo cittadino sono stati molto simili, assonanti, con la sua personalità: Milano che cresce, che corre, che attrae capitali e persone, intelligenza e opportunità. Milano che beneficia, anche, di importanti risorse pubbliche e – a differenza del malcostume italico – le fa anche fruttare. Tutto fin troppo bene, fino a una pandemia che ha colpito il mondo globale e ha congelato le opportunità di movimento, incontro, crescita lineare. Almeno temporaneamente, ha reso le città luoghi faticosi, inospitali, findati su tutto ciò che è meglio evitare di fare, o è proprio proibito per legge. Non solo Milano non sfugge a queste conseguenze, ma semmai ne incarna gli effetti appieno. Se c’è un posto in Itaia che ha fondato – da secoli, non da Expo – il suo ruolo sociale e politico sull’incontro, lo scambio, la mobilità, questa è Milano. Negli ultimi anni, al dovere si era aggiunto vorticosamente un mercato del piacere, per cui – questa sì, abbastanza una novità – venire a Milano per lavoro era sempre più spesso un’ottima scusa per fare cose divertenti.

Tutto finito? Non lo sappiamo. Presumibilmente no, non è tutto finito, non per sempre. Sicuramente però quel che è stato ovvio e pareva incrollabile fino a un anno fa non tornerà a esistere come nulla fosse, e com’era prima, per un bel pezzo. Non basterà la campagna vaccinale a ristabilire il passato. Non ci vorrà poco tempo, e il mondo dopo la scoperta della pandemia – della sua possibilità, che non finisce con la fine di questa pandemia – presenta comunque delle variabili e delle incognite che al momento nessuno conosce. Milano continuerà a essere Milano, naturalmente, ma come potrà interpretare il suo ruolo di capitale economica dinamica in un paese sempre più affaticato, come potrà giocarsi le sue carte di multinazionale tascabile nell’era dello smart working che sarà, nessuno può dirlo con certezza adesso.

Per tutte queste ragioni, la ricandidatura di Beppe Sala, finalmente annunciata, è in realtà più l’inizio di molte nuove domande, che la risposta definitiva ai dubbi. Come saprà l’uomo che meglio e più di tutti ha incarnato la continuità con l’efficienza del vecchio mondo aprirsi al nuovo? Sappiamo, ad esempio, che ha in animo di improntare la giunta che verrà – ben inteso: prima le elezioni vanno comunque vinte, poi si fa la giunta, e se il centrodestra milanese non sembrasse in letargo questa ovvietà sembrerebbe perfino più ovvia – a elementi di novità e discontinuità rispetto al passato. In nome di cosa, però? Servono facce nuove, come si dice quando si preparano i casting, o servono interpreti all’altezza di tempi radicalmente nuovi? E tutta questa necessaria discontinuità come si rapporterà all’interno dei rapporti politici, in particolare col Pd, che continua ad avere a Milano la sua roccaforte elettorale?

Sono solo, queste, alcune delle questioni su cui avremo occasione di tornare. Ma è bene iniziare a pensarci da subito tutti. Dal primo cittadino in giù.

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