Milano

Pasqui: Le città continueranno ad attrarre, liberiamo Milano da retorica e paura

25 Settembre 2020

“In molti hanno criticato il Politecnico per aver spinto molto, di fatto portandosi l’intera università italiana , per una modalità didattica blended, mista, mentre in diversi avrebbero voluto continuare a fare lezioni solo in remoto. Io sono contento invece, soddisfatto, e continuo a pensare che l’insegnamento universitario sia un servizio pubblico, proprio come la scuola, e che quindi era giusto prendersi qualche rischio e metterci tanta attenzione, ma riprendere l’insegnamento in presenza. Del resto, se ci pensiamo, non si è fermato chi ci ha permesso di mangiare, chi ci ha permesso di vivere in città e condomini comunque puliti, per non parlare ovviamente degli ospedalieri, o delle fabbriche, che in buona parte importante non hanno mai smesso di produrre”. Gabriele Pasqui, economista di formazione, docente di politiche urbane, professore ordinario al Politecnico di Milano, guarda al futuro della città e al passato (speriamo) della fase acuta dell’epidemia, partendo dalle aule universitarie del Politecnico, una delle eccellenze accademiche milanesi e italiane.

L’adeguamento all’emergenza sanitaria, il ripensamento del sistema produttivo e accademico, ha molto a che vedere con le scelte che farà il nostro paese, a proposito di recovery fund.

“Certo, ma più in generale è fondamentale che le risorse straordinarie siano in grado di finanziare interventi capaci di generare una forte e rilevante moltiplicatore di valore. È folle immaginare di sostenere il reddito puro, con il recovery fund, bisogna invece individuare i segmenti, i settori, in grado di far ripartire più in fretta la nostra economia. Per esempio, bisogna privilegiare il manifatturiero rispetto al terziario, perchè nel primo il moltiplicatore è più elevato. Questo tipo di investimenti deve partire dall’analisi di una specificità territoriale che io non vedo valorizzata, né capita, né analizzata a monte, a mo’ di quadro generale dentro al quale muoversi in maniera coordinata. Tanto è vero che le richieste dei ministeri sono tre volte più alte  del valore totale del fondo. Ognuno pensa per “sé” e nessuno pensa a tutti. Procedendo in questo modo, ho paura che perderemo un’occasione”.

Da esperto di politiche urbane, come valuti i tanti discorsi, che si sono radicati a partire dall’esplosione della pandemia, sul futuro (im)possibile delle città?

“Si sono affermate da subito, e ancora sopravvivono, due tonalità emotive. La prima la definirei apocalittica, e prevede che questa cosa cambierà tutto, per sempre. Si cristallizza così una retorizzazione del cambiamento delle forme di vita, del lavoro, dei modi di produzione, che descrive e quasi si compiace di scenari impossibili, che non succederanno. Intendiamoci, di cambiamenti ce ne sono e ce ne saranno, ma non così drastici nè così repenti. Poi c’è la versione opposta, che dà per scontato, forse sperandoci, il business as usual. Ricominciamo da dove eravamo. Dall’assalto alle risorse di cui parlavamo prima, alle scelte e agli stili di vita. E devo ammettere che, stretto tra queste due opposte retoriche, ho visto una limitata capacità del mondo accademico e universitario di incidere davvero, di problematizzare e restituire una complessità ragionata, che poi sarebbe il nostro lavoro. Probabilmente il meccanismo delle task force non ha aiutato, in questo senso, ma certo il nostro apporto mi sembra mancare.

Anche in questa situazione è emerso con chiarezza quello che sembra un risalente problema italiano: i processi di decisione pubblica seguono sempre processi e logiche complicati, e sicuramente non ottimali.

È vero, anche se io non credo alla razionalità assoluta, ogni decisione, anche la migliore, è solo la migliore tra quelle possibili alle condizioni date e frutto di percorsi complessi, a volte anche tortuosi e contradditori e di conflitti. Però è vero che le forme di razionalità mobilitate in questo momento sono limitate. Gli esperti sono stati chiamati in causa solo su aspetti molto precisi, super tecnici, medico epidemiologici, e ovviamente data la novità della situazione con ampio spazio per cambi di rotta e correzioni. Ma per il resto, le altre competenze non sono mai state mobilitate, proprio mentre si continuano a ripetere mantra che le richiederebbero.

Si ripete ossessivamente, ad esempio, che i luoghi contano, che la quantità e qualità dei servizi è decisiva, che avere o non avere del verde attorno è fondamentale. Su queste questioni di certo non basta il sapere di medici e virologi.

Esatto. Adesso sarebbe fondamentale mobilitare risorse di comprensione su quale modello di sviluppo ci serve, e quale è più adatto a noi. E ci serve un pensiero ricco e complesso sulla ristrutturazione dei rapporti tra territori. Su questo non vedo grande richiesta di attivazione di risorse intellettuali.

Milano è stata in qualche maniera percepita come la capitale nazionale della pandemia, da un lato, e poi come il luogo in cui ripartire sarà più difficile, proprio perché gli ingredienti che ne componevano il successo sono quelli messi più a rischio dal cambiamento imposto dall’epidemia.

La sfida, per la nostra città, è effettivamente piuttosto complicata e spiazzante, e questo spiega anche le fasi scomposte e contraddittorie che abbiamo attraversato, che citava Pietro Modiano, ricordando che siamo passati dallo slogan “Milano non si ferma” a una certo malcelato vittimismo. Hanno funzionato molto quelle retoriche, dimostrando effettivamente debolezze innegabili. Ci sono però aspetti molto positivi nella storia lunga e in quella recente di Milano: la mixitè sociale, la capacità di attrarre capitale umano e non, particolarmente accentuata negli ultimi anni. Questa peculiarità però si è portata dietro tante retoriche, come quella del “modello Milano”, che ha contribuito a generare l’ansia che tutto possa finire di colpo, e le reazioni scomposte di cui parlavamo poco fa.

Ma davvero tutto può finire di colpo? È realistico pensare che una serie di ingredienti strutturali e ambientali, di colpo, non valgano più nulla?

Ecco, io di questa caduta verticale probabile o data addirittura per certa non sono affatto sicuro. Lo vedo dal mio osservatorio accademico: ho due corsi, uno in italiano e uno in inglese, e in entrambi vedo la voglia di esserci. Soprattutto a quello in inglese – cui sono iscritti 80 studenti – erano due terzi in presenza nei primi giorni di corso. Gli stranieri sono 50 e vengono da Indonesia, Cina, Sudamrica Turchia, Iran, India. Tutti quelli che possono, vengono. Tornano a Milano se erano rientrati a casa, o restano volentieri se non si sono mai mossi. Mi aspettavo dati diversi, peggiori, più paura, e invece no. Certo, sono giovani e tra i più giovani c’è una percezione diversa, c’è ragionevolmente meno paura della malattia. Ma credo conti il fatto che anche Milano continua ad esercitare un potenziale attrattivo forte.

Evidentemente a Milano sono stati bene anche prima, ha risposto positivamente alle loro aspettative e agli investimenti fatti su di loro dalle loro famiglie. Ma adesso si avanza il racconto di una nuova alternativa all’urbanesimo: il ritorno ai borghi, meglio se remoti e abbandonati!

Tutte le prospettive antiurbane io non credo che abbiano fondamenti solidi, anche questa è una retorica fragile, se messa di fronte ai dati e alla storia. Si dimentica, o volutamente si ignora, che questo “ritorno ai borghi” per come è stato declinato finisce per essere possibile solo per i ricchi. L’idea di un modello in cui i professionals e le nuove borghesie stanno lontane, mentre in città restano solo gli working poor mi sembra inquietante, classista, e comunque poco realistica. Del resto, il mercato del lavoro in questa città è già fortemente polarizzato e disarticolato. Te ne accorgi se, come me, attraversi la città la mattina all’alba. Ti accorgi di quanta gente arrivi per fare lavori umili e poco remunerativi in quelle ore.  Spingere ulteriormente in là la dinamica non farebbe bene a nessuno.
La città, al contrario, è il luogo giusto in cui sperimentare cose nuove, ma per combattere le distorsioni che ereditiamo, non per assecondarle fino alla distopia. E comunque, su scala globale, e anche in Europa, la capacità attrattiva della città non è finita certo adesso, e non si fermerà per la pandemia, come non è finita in passato per le pestilenze, le guerre, i bombardamenti… In particolare dove i processi sono ancora ultradinamici, penso all’Africa o all’Asia, non ho dubbi sul fatto che le città continueranno ad attrarre persone, risorse, progetti, crescita.

A Milano si sta lavorando per “apprendere la lezione”, per cambiare ciò che va cambiato, anche alla luce di ciò che abbiamo dovuto apprendere dalla pandemia?

Qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta, anche a Milano. Il primo documento che aveva elaborato il Comune, quello che dava importanza al contenimento delle distanze per raggiungere tutti i servizi essenziali indicando la misura dei 15 minuti, era interessante. Ma serve una capacità di scelte strutturali e di dare continuità: una capacità che, invece, ancora manca.

Mettere a terra questo cambiamento significa creare conflitti con varie forme di rendita che si erano consolidati in questi anni.

Esatto, a proposito di conflitti ne cito un paio, che mi sembrano paradigmatici. Un primo caso, i dehor, come questo in cui mangiamo adesso una pizza all’aperto al quartiere Isola. Non ci si pensa, ma anche questo è un piccolo conflitto, perché adesso in molti marciapiedi non passi più a piedi. L’altro conflitto, per ora potenziale, è capire se la crisi che indubbiamente ci porteremo dietro per un po’ influenzerà strutturalmente il mercato urbano, che a Milano aveva avuto una dinamica forte. Se, in sostanza, caleranno i prezzi e si bloccheranno i progetti. Ci sono per ora segnali contraddittori: il centro commerciale di Segrate si è fermato, ad esempio. Una cosa è certa: una riflessione su un modello di sviluppo così trainato dall’immobiliare a mio avviso va fatta, anche a livello istituzionale e dei decisori pubblici, a cominciare dal Comune. Peraltro, diversi effetti della pandemia e del lockdown si sono con ogni evidenza distribuiti in maniera diseguale sui luoghi della città. E questa è una grande fragilità della città, essere così smaccatamente “a due velocità”. Pensiamo a quanto ha pesato e peserà il blocco scolastico su bambini di recente immigrazione, che se non lavorano in presenza accumulano ulteriormente ritardo. In questo quadro, dire che c’è la necessità di ripensare il rapporto tra spazio scolastico e quartieri circostanti. Le scuole devono essere veri e propri hub, e lì puoi aggredire davvero il tema delle diseguaglianze sociali, esattamente dove altrimente si consolidano.

Milano sembra invece un po’ preoccupata di essere dimenticata dal mondo che l’aveva eletta a “place to be”. Quasi avesse paura di tornare al grigiore della città post-tangentopoli.

È comprensibile la paura, e anche il ricordo un po’ intimorito di anni bui e grigi. Non c’è paragone con la Milano di oggi, è un valore vero e va conservato. Io penso, sinceramente, che Milano non debba immaginare, per sè, un grande cambiamento rispetto alle aspettative e all’immaginario che “gli altri” hanno su di lei. Milano vista con gli occhi degli altri mantiene e manterrà il suo potenziale attrattivo, il suo fascino, il suo senso di luogo delle opportunità. Non avrei dubbi. Deve invece prestare molta attenzione al rischio di accelerazione delle ulteriori diseguaglianze. La città, chi la guida e chi la guiderà devono prestare ascolto alle critiche serie, a chi metteva in guardia da certe derive, non rubricando ogni obiezione alla voce “settarismo minoritario e di sinistra”, che pure esiste e non ha alcuna utilità, salvo quella di rendere più difficile la critica costruttiva. E poi, se c’è un tema da non sottovalutare, secondo me sta nell’accelerazione della separazione della distanza tra Milano e la Lombardia, il suo territorio inteso in senso lato. Perchè Milano è sempre più “lontana” dalla sua regione, e poi è sempre più scollata al suo interno. Bisogna lavorarci, al di una consapovalezza che c’è. Non è un tema facile ma va affrontato.

Faceva impressione, quest’estate, vedere Milano che sembrava quella di 15 anni: senza residenti, senza visitatori, con poca voglia di vivere nel tempo degli uffici chiusi. Cosa serve per ripartire, per scartare e portare il valore di cui parlavamo nel futuro?

Bisogna tenere insieme valore e fatiche, e serve uno scarto nel modello di sviluppo. La giunta e il sindaco hanno più volte mostrato di sapere che il tema c’è. Ma adesso serve uno scatto soprattutto sul modello di sviluppo, che è più strutturale rispetto alla mera attenzione alle diseguaglianze. Serve ovviamente attenzione al modello ambientale sostenibile, e forse anche una Milano forte tratta col privato da posizione di maggiore forza. Quando negli ultimi anni bussavano, era perché volevano venire a investire. Eravamo l’unica città italiana che poteva attrarre davvero investimenti. Adesso vedremo, ma prima era sicuramente così. E se è così, ed è così, bisognava saper catturare più risorse, trattare coi privati con più forza, anche con più orgoglio.

Prendere di più, per fare cosa?

Certe cose le può fare solo il pubblico, e le risorse servono a quello. Ma ci sono cose che può fare meglio la società, che va lasciata libera di correre e di partecipare. A volte vedo i bandi pubblici del Comune e sono così faticosi che immagino scoraggino la maggior parte degli interessati. Su questo punto lavorerei, anche perchè se ci ricordiamo l’epoca del centrosinistra inizia a Milano sulla spinta, forte, di una grande voglia di partecipazione popolare rimasta delusa. Ecco, ripartirei da quella volta, per non deluderla più.

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