Milano

Maran candidato in Lombardia, pregi e difetti di una scelta fatta per pesarsi

12 Novembre 2022

Pierfrancesco Maran, assessore alla casa della Giunta Sala, assessore all’urbanistica nella precedente giunta con lo stesso sindaco, assessore con Pisapia all’ambiente e alla mobilità, e prima ancora consigliere comunale di opposizione quando a Palazzo Marino sedeva Letizia Moratti, ha annunciato la propria candidatura alla presidenza della Regione Lombardia.  O meglio, intanto ha annunciato la propria intenzione di partecipare alle primarie – non ancora convocate, ma si ipotizza una data: il 18 dicembre prossimo – del centrosinistra. L’obiettivo è essere il candidato alla presidenza del Pd, di qualche lista civica, eventualmente di qualche alleato.

Partiamo intanto da questo perimetro della contesa: il centrosinistra, il Pd e le primarie. Maran, nella hall di un Teatro Parenti in cui erano convocati contemporaneamente giornalisti e cittadini, ha chiuso categoricamente la porta all’idea di un sostegno a Letizia Moratti, candidata del Terzo Polo di Calenda e Renzi. Lo ha fatto con argomenti di puro buon senso che francamente pare assurdo mettere in dubbio. Il primo: “come si fa a sostenere chi è stata vice di Fontana fino a un mese fa, e fino a quando ha potuto sperare di sostituirlo alla guida della stessa coalizione o di andare a Roma da ministra con la stessa coalizione”. Il secondo: “Perchè chi vota per il terzo polo non dovrebbe votare un candidato come me?”, che sono un moderato e sviluppista? Entrambe affermazioni corrette, quasi ovvie. Vero è che molti, anche nel Pd, contestano perfino questa ovvietà e vivono la candidatura Moratti come una tentazione, e quindi diventa necessario ribadirla.
In maniera appena meno categorica, ma comunque netta, l’assessore ha poi chiuso la porta anche a un accordo coi 5 Stelle, con un argomento invero più fragile: “La loro bandiera, quella della legalità, non ha bisogno di essere sventolata con noi, perchè siamo incorruttibili”. La sintesi è mia ed è brutale, ma il concetto espresso era questo. È piuttosto chiaro ormai che il vecchio movimento tutto manette e legalitah ha lasciato il posto a un partito dall’identità più politica e meno antipolitica, e punta a occupare lo spazio della sinistra popolare, e populista. Uno spazio che in Lombardia è piccolo, indubbiamente, ma di fronte a un’impresa difficile la rinuncia – del tutto legittima, viene da sè – a ogni dialogo andrebbe però diversamente argomentata.

Sia come sia, in questo modo, il perimetro della prima sfida di Maran – quella che deve vincere all’interno di partito e coalizione, per arrivare a essere candidato – è piuttosto ristretto: essere candidato di un centrosinistra che tende a coincidere con un Pd allargato. L’altro nome forte che circola in questi giorni per la guida della coalizione è invero lo stesso nome di Maran, cioè Pierfrancesco, ma di cognome fa Majorino. Anche lui ex assessore, però al welfare, prima con Pisapia e poi nella prima parte di Giunta Sala, prima di andare a Bruxelles, da europarlamentare, con oltre 90 mila preferenze raccolte a Nordovest. Il suo schema politico è diverso, perchè per Majorino sembra ovvio pensare alla Lombardia come a un laboratorio per provare a ricostruire anche a livello nazionale un’alleanza coi 5 Stelle. Ha meno carte di Maran da giocarsi “al centro”, ma punta(va) ad un’investitura ufficiale del partito che però non è arrivata in tempo. Già, perchè tra le ragioni dell’autocandidatura registrata al Teatro Parenti c’è anche sicuramente l’obiettivo di anticipare tutti. Di dichiararsi in campo, forti di un peso specifico non indifferente dato il perimetro di riferimento, rendendo obbligatorio per tutti gli altri contendenti il passaggio al casello di un confronto. La decisione mi ha ricordato, peraltro, quel che fece proprio Majorino, quando dopo aver registrato l’annuncio di non ricandidatura da parte di Pisapia a sindaco, decise di anticipare tutti e di candidarsi alle primarie, pretendendole, e obbligando partito e coalizione a non convergere su una candidatura decisa insieme. Quelle che poi, diversi mesi dopo, incoronarono Sala. È del tutto evidente che adesso, sia per Majorino sia per altri candidati, si comincia da uno, dal primo che si è iscritto a partecipare. È un atto di coraggio, che va riconosciuto, tanto più che chi lo conosce bene, e spesso anche chi gli vuole bene, tra tante doti di abile navigatore e buon amministratore non gli aveva mai riconosciuto l’ardore del condottiero. Vedremo cosa succederà, vedremo se le primarie davvero si svolgeranno (evitarle ora sarebbe difficile e probabilmente anche impopolare), vedremo se una candidatura come quella di Majorino ci sarà davvero, in aperta contrapposizione a quella di un compagno di viaggio di lunga data e che parte dallo stesso territorio – importante ma mai davvero rappresentativo della regione – cioè quello di Milano.

Poi, però, c’è la partita più importante. Che non è quella delle eventuali primarie, ma quella delle secondarie, come Massimo D’Alema ebbe a chiamare le elezioni qualche volta, agli albori dell’introduzione di questa pratica partecipativa in Italia. Già, perchè sono pur sempre le elezioni la ragione per la quale tutto questo si fa, o si dovrebbe fare. Maran ha detto frasi che non si possono non dire: ha detto che ci crede davvero, che questa volta le elezioni regionali non coincidono con le politiche e questo apre spazi di voto meno conformista (vero, ok, ma venti punti di distacco abbondanti sono una montagna abbastanza alta da scalare); ha aggiunto che per la prima volta si vota in inverno (tecnicamente non è vero, entrambe le ultime elezioni sono state invernali, e comunque non si capisce bene quanto sia rilevante la stagionalità). Sul tema delle elezioni regionali e della sfida a una destra lombarda giustamente bollata come imbolsita e vecchia, è sembrato onestamente meno convincente. Un po’ forse perchè lo sappiamo politico molto attento agli ordini di grandezza e capace di fare bene i conti: sa anche lui che vincere in Lombardia per il centrosinistra è un’impresa ciclopica, che senza alleati diventa semplicemente impossibile, almeno allo stato dei fatti. Del resto, stiamo parlando di una regione che vota a destra ininterrottamente da 28 anni e nella quale – stando ai dati delle ultime politiche – le proporzioni sono un po’ diverse rispetto alla media nazionale: col centrodestra oltre il 50%, il centrosinistra al 27%, il terzo polo di Calenda al 10%, e i 5 stelle al 7%, ben sotto la metà di quanto preso in tutto il paese. Come si vede, il vuoto di consensi lasciati da un Movimento 5 Stelle da sempre marginale in Lombardia sono riempiti, quassù, dal centrodestra e dal Terzo polo, mentre il centrosinistra di Maran resta dov’è più o meno ovunque, e quindi ancora più distante dalla destra. Considerando le specificità del voto regionale, è possibile immaginare che Calenda, Renzi, Letizia Moratti e il suo budget abbiano qualche spazio per arrotondare a rialzo, mentre il Movimento di Conte possa perdere ancora qualche voto. Ma insomma, le proporzioni viste all’opera a fine estate dovrebbero essere più o meno confermate in inverno.  Poi esistono i cataclismi e le vittorie al superEnalotto: ma nessuno progetta la propria vita scommettendo contro i primi o sui secondi. Peraltro, quando ha parlato del programma e di ciò che immagina di dover fare in Lombardia, l’assessore è sembrato frettoloso, come non avesse ancora iniziato a studiare davvero il dossier. È anche ovvio, siamo prima dell’inizio e quindi ci sarà bisogno di tempo per avere idee precise, solo che il tempo è molto poco e la sensazione di un certo distacco dai temi principali di una contesa regionale a me è sembrata percepibile, e non proprio entusiasmante.

Perchè alla fine, e dopo tutto, registrato l’atto di coraggio che entra come un coltello caldo nel burro della totale inazione di un partito e di una coalizione in un territorio ostile e considerato da sempre perduto, la sensazione principale, che resta, è quella di una decisione maturata molto di più pensando alle mura del proprio partito, fattosi angusto per Maran, negli ultimi anni, che non a quelle di una regione che è insieme troppo grande per la sua storia, e troppo piccola però per come la politica piace a lui. Perchè lo sanno tutti, anche le pareti della Regione per non parlare di quella del pd, che se a Maran fosse stato dato quel che era ovvio e naturale – un seggio in parlamento, alle scorse politiche – di tutto questo non staremmo parlando. Perchè il destino naturale e giusto di un quel percorso, di un amore finito o mai davvero nato – quello con Beppe Sala -, di una carriera di amministratore milanese con tanto consenso territoriale e da sempre passione per la politica nazionale, era di andare a Roma. L’operazione non è riuscita, un po’ per l’anticipo dei tempi generato dalla crisi di governo estiva, un po’ perchè la politica la fanno gli umani, e non sempre gli umani scelgono il meglio, o lo riescono a perseguire, o lo vogliono realizzare. Insomma, Maran è rimasto a Milano, e l’unica finestra – l’ultima finestra – per misurarsi fuori di qui, e anche per non rischiare di vedere disperso il suo capitale politico, era questa. E ha fatto benissimo a coglierla, intendiamoci. Anche perchè se la regione Lombardia non è contendibile dal centrosinistra non è certo per questa decisione, ma per decenni di incuria, indifferenza, pigrizia e incomprensione. Se questa decisione, oltre che a pesare la forza di chi l’ha presa servirà a riaprire una dialettica democratica nella regione più ricca, dinamica eppure conservatrice d’Italia, avrà già avuto un grande merito, comunque vada a finire. Certo, serviranno poi lavoro e pazienza: ciò che, appunto, è mancato finora.

 

 

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